La decisione di tenere il consiglio generale a Taranto vuol essere un preciso segnale da parte di Confindustria al governo sulla necessità di una politica organica di sviluppo per il Sud. Nel corso della riunione di giovedì scorso, la Confederazione ha presentato il suo Piano per il Mezzogiorno, in cui si chiedono al governo diversi interventi da inserire nella prossima Legge di stabilità.
Accanto a misure fiscali per attrarre investimenti e incentivare ricerca e innovazione, particolare importanza viene data alla realizzazione delle infrastrutture necessarie, a partire da quelle già decise e ferme per vari intoppi, e all’utilizzo dei fondi europei, già stanziati e di prossimo stanziamento. Richieste del tutto condivisibili, anche se sarebbe stata opportuna l’indicazione di ciò che Confindustria vuole fare in proprio per lo sviluppo del Mezzogiorno.
La scelta di Taranto è stata fatta anche per rimettere al centro dell’attenzione la vicenda Ilva, il cui stabilimento pugliese fu inaugurato proprio 50 anni fa. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha ribadito l’importanza del centro siderurgico per il sistema economico italiano, che non può permettersi di rinunciarvi, cosa che avvantaggerebbe solo i concorrenti stranieri.
Attualmente Taranto sta producendo la metà dell’acciaio rispetto al periodo precedente ai blocchi della magistratura, con perdite non solo di fatturato, ma anche di clientela in una fase di crisi generale del settore. Proprio in questi giorni è giunta la notizia dell’esclusione di Ilva dalla gara di appalto per la produzione di tubi per il gasdotto Tap, che dall’Azerbaijan dovrebbe portare il gas in Puglia. Una commessa stimata a 300 milioni di euro, che avrebbe portato un po’ di sollievo alla società, i cui tubifici sono inattivi per mancanza di ordini.
La questione Ilva sembra destinata a non trovare una soluzione soddisfacente, nonostante la folla di “curatori” che l’attorniano, o proprio per questo. Politici, nazionali e locali, magistrati, sindacati, industriali, ecologisti, opinionisti, tutti hanno una propria ricetta, ma quasi sempre con qualcun altro che deve prendere l’amara medicina prevista.
È ciò che sta avvenendo per la Tap, il cui approdo in Puglia è fortemente sostenuto dal governo, ma altrettanto fortemente ostacolato da sindaci ed ecologisti del Salento e, pare, anche dal presidente della Regione, Michele Emiliano. Cosa che non ha di certo facilitato l’Ilva nella citata gara internazionale.
Tutta la vicenda sembra essere contrassegnata da questi conflitti di interesse, a partire dalla necessità di far fronte a due obiettivi che paiono per il momento contrapposti: la necessità di salvare migliaia di posti di lavoro, da un lato, e la salvaguardia della salute dei lavoratori e degli abitanti della zona, dall’altro.
Due obiettivi che, per non elidersi reciprocamente, richiedono un’azione comune di tutti gli operatori coinvolti insieme a investimenti notevoli. Un programma che richiede anche un’efficace temporizzazione degli interventi su entrambi i versanti, produttivo e ambientale, che non può essere lasciata all’iniziativa della magistratura, né a quella di commissari straordinari che, come tali, sono designati per far fronte a un’emergenza.
Ciò non significa rinunciare a perseguire responsabilità che certamente esistono e che sono molto diffuse, ben al di là di contrapposizioni di comodo, come privato/pubblico, politici/industriali e via dicendo, e che risalgono anche molto addietro nel tempo. Il punto è che finora si è data l’impressione di cercare soprattutto i responsabili, comunque altrove rispetto al proprio campo, piuttosto che avviare a soluzione il problema principale, che rimane la conciliazione tra industria e ambiente, lavoro e salute, risultati e costi, non solo monetari, per ottenerli.
Un problema di cultura economica che va ben oltre il caso specifico di Taranto e che prima o poi dovrà essere affrontato seriamente.