La ormai nota “guerra del petrolio” è costantemente al centro di dibattiti tra addetti ai lavori, spesso difficilmente decifrabili dai comuni cittadini. Eppure, questa fase di bassi prezzi di petrolio e gas naturale non è priva di conseguenze più generali per tutta la nostra economia, che andrebbero prese in considerazione non solo dagli esperti, ma soprattutto dai politici.



Il crollo del prezzo del petrolio da 110 a 40/50 dollari al barile sta mettendo in seria crisi i bilanci pubblici di molti Paesi produttori, compresa l’Arabia Saudita cui si deve gran parte della guerra. Alle difficoltà di bilancio dei produttori, dovrebbero fare peraltro da contraltare i benefici per i Paesi netti importatori, come l’Italia. Il prezzo di questi combustibili è parte determinante dei costi di produzione del sistema economico e incide direttamente sul prezzo di beni e servizi consumati dalle famiglie, come benzina, elettricità, riscaldamento. Ciò è tanto più vero per l’Italia, che ha un mix energetico particolarmente incentrato sugli idrocarburi, quasi totalmente importati.

Il più elevato costo energetico per le nostre imprese è stato sempre denunciato come un pesante svantaggio nei confronti dei concorrenti stranieri, anche europei. Tuttavia, questo argomento non sembra essere in primo piano nei dibattiti, così come poco note sono analisi su prezzi e consumi della benzina o sull’andamento delle tariffe elettriche, dove sarebbe interessante un confronto con altri Paesi con mix energetico diverso. Non è escluso che le tante vischiosità del nostro sistema stiano impedendo di sfruttare a fondo il favorevole andamento dei prezzi, o che i benefici vadano a una cerchia ristretta di operatori, privati e pubblici, senza essere trasmessi ai fruitori finali.

Le recenti forti oscillazioni nei prezzi del petrolio non hanno alcun evidente rapporto con la domanda e l’offerta della materia prima e sono causati da operazioni finanziarie su indici, facilitate dalla cospicua liquidità emessa sui mercati dalle autorità monetarie. Questa liquidità apparentemente trova più facile allocazione in operazioni finanziarie, rischiose ma rapide, piuttosto che in attività imprenditoriali, anch’esse soggette a rischio e che in più necessitano di tempi lunghi. I vari enti di governo dovrebbero concentrarsi su un effettivo controllo dei flussi monetari e dei loro impieghi, adoperandosi per creare condizioni più soddisfacenti per lo sviluppo di reali iniziative imprenditoriali. La chiara e oggettiva comunicazione dei risparmi che l’attuale livello dei costi degli idrocarburi porta a imprese e famiglie sarebbe un positivo rafforzamento di quel fattore essenziale che è la fiducia.

Accanto a quelli dei Paesi produttori, sono in sofferenza anche i bilanci delle società petrolifere, che reagiscono con tagli di costi e di dipendenti, razionalizzazione delle strutture e diminuzione degli investimenti. In un settore che richiede investimenti a lungo termine con forti indebitamenti, l’attuale basso costo del denaro rappresenta un fattore positivo, che consente la permanenza sul mercato anche di società per altri versi marginali. 

L’insieme di questi fattori rende probabile un mantenimento dell’attuale livello dei prezzi ancora per un certo tempo, ma è altrettanto probabile che, se non altro nel medio termine, essi comincino a risalire. Di questo aumento potranno però beneficiare solo quelle imprese che, nel frattempo, saranno riuscite a ristrutturarsi adeguatamente.

Vi è poi un altro fattore strategico di cui tener conto: il forte interesse per l’eliminazione dell’inquinamento da CO2, al centro della Conferenza dell’Onu di dicembre a Parigi sull’ambiente. A questo proposito è da ricordare la lettera aperta indirizzata all’Onu, alla fine dello scorso maggio, da sei società petrolifere europee, tra cui l’Eni, per chiedere il coordinamento delle imposte sull’emissione di gas serra, così da evitare disparità di trattamento territoriali e permettere alle imprese certezza sugli adempimenti e costi loro richiesti. Il dato interessante è la presa di posizione nella lettera a favore del gas naturale come principale componente energetica da affiancare per il futuro alle fonti rinnovabili, mossa che si presenta come un vero e proprio attacco al carbone. Quest’ultimo, infatti, causa emissioni di CO2 circa doppie rispetto al gas naturale, mentre il petrolio si situa a metà strada tra i due.

Questa posizione è stata esplicitamente ribadita in un articolo sull’Osservatore Romano dell’ad di Eni, Claudio Descalzi, con citazioni della recente enciclica di Papa Francesco. Questo articolo ha preceduto di poco la conferma ufficiale della scoperta del megagiacimento di gas naturale al largo delle coste egiziane. C’è da chiedersi se il gas naturale stia soppiantando il ruolo principe del petrolio e del carbone e quali saranno le conseguenze non solo economiche ma anche geopolitiche di questo cambiamento. E, soprattutto, se l’Italia ne è cosciente e preparata, come parrebbe essere l’Eni.