L’estrema volatilità che continua ad affliggere il prezzo del petrolio sembrerebbe causata più dal sentiment caratteristico dei mercati finanziari che da fatti oggettivi, dato che le variazioni nella produzione non avvengono da un giorno all’altro. Anche un dato che dovrebbe essere oggettivo, come l’entità delle scorte, è in realtà soggetto a continui cambiamenti nelle stime, perfino provenienti dalla stessa fonte.
Tra l’altro, gli indicatori utilizzati si riferiscono solo a due tipi di petrolio, il Brent del Mare del Nord e lo Wti americano, a fronte di una varietà di tipi di petrolio con relativi specifici prezzi: solo il paniere dell’Opec è composto da tredici varietà di petrolio. Inoltre, i prezzi reali di compravendita dipendono dalle politiche commerciali dei vari produttori e dalle relative politiche di sconto.
I prezzi sono comunque bassi, troppo per i bilanci di molti produttori, Stati e compagnie petrolifere, che auspicano una ripresa dei prezzi in un futuro non molto lontano, pur scontando che l’attuale volatilità continui nel breve periodo. I fattori che possono sul medio termine influenzare l’andamento dei prezzi del petrolio sono tuttavia molteplici.
In favore di una ripresa dei prezzi giocano la possibile ripresa generale dell’economia, con conseguente ripresa dei consumi di petrolio, e il passaggio da altri combustibili al petrolio per questioni ecologiche. È l’ ipotesi contenuta nel documento presentato da sei società petrolifere in vista della Conferenza di Parigi sul clima, dove si sottolineava la minore emissione di sostanze nocive soprattutto del gas naturale, ma anche del petrolio, nei confronti dell’inquinante carbone.
Benché auspicato da tutti, non è facile prevedere se e quando ripartirà l’economia mondiale e il vantaggio ecologico potrebbe favorire il petrolio solo in una fase di transizione, sia per la concorrenza “interna” del gas naturale, sia per il progressivo affermarsi delle fonti rinnovabili. Il petrolio deve fronteggiare anche il progresso tecnologico che, se da un lato concorre a diminuire i costi di esplorazione ed estrazione, dall’altro tende a ridurre il consumo di petrolio con un più alto livello di efficienza energetica del suo utilizzo. Sempre dalla tecnologia viene un altro pericolo: l’automobile elettrica, la cui espansione porterebbe a ulteriori riduzioni nei consumi.
Accanto a questi esterni, vi sono fattori interni al mercato stesso del petrolio, come la più volte discussa riduzione della produzione, che prevede però un difficile accordo tra i produttori e dovrebbe essere di consistenti dimensioni per permettere un rialzo sensibile nei prezzi. Peraltro, se si continuasse con un livello così basso di prezzo, comincerebbe l’uscita dal mercato dei produttori più deboli, finanziariamente o per costi di produzione, con riduzione dell’offerta. Un prezzo remunerativo deve tener conto non solo del puro costo di esplorazione e di estrazione, ma anche dei costi finanziari connessi a investimenti pesanti e di lungo termine. In fondo, questo è l’obiettivo della guerra dei prezzi e il possibile fallimento non riguarda solo gli operatori sul mercato, ma tocca tutti quei bilanci statali che abbisognerebbero di prezzi attorno ai 100 dollari al barile. Non a caso, la guerra è condotta dall’Arabia Saudita, che ha costi di estrazione molto bassi e una consistente capacità finanziaria, a differenza di molti suoi concorrenti.
Un altro fattore interno di possibile dei prezzi è dato dai forti tagli effettuati sugli investimenti in ricerca, derivante dalla necessità di ridurre i costi e i rischi. È ipotizzabile, perciò, una diminuzione dell’offerta futura, poiché sempre più giacimenti sfruttati attualmente andranno ad esaurimento senza poter essere rimpiazzati.
Questo scenario rischia di essere radicalmente modificato dallo shale oil, che ha portato gli Stati Uniti a essere il terzo produttore mondiale di petrolio, avvicinandoli a Russia e Arabia Saudita. In questo settore le tecnologie si sono particolarmente raffinate, consentendo a molti produttori di rimanere sul mercato malgrado i bassi prezzi. Inoltre, a differenza dei pozzi tradizionali, quelli del petrolio di scisto possono essere trivellati e poi lasciati “in sonno”, in attesa di prezzi che consentano uno sfruttamento remunerativo.
Le società americane stanno infatti estraendo petrolio da un numero limitato di pozzi rispetto a quelli trivellati, cioè da quelli più profittevoli economicamente, lasciando a riposo gli altri. Qualora i prezzi del petrolio diventassero più remunerativi, questi pozzi potrebbero essere rapidamente messi in funzione, finendo così per calmierare gli aumenti di prezzo. Di più, gli Stati Uniti non sono gli unici ad avere terreni scistosi e queste tecnologie possono essere applicate in molti Paesi, tra cui Russia e Cina.
Mettendo insieme tutti gli elementi, rimane difficile pensare a un ritorno ai 100 dollari per barile, salvo eventi catastrofici, e più pensabile un livello di prezzi tra 50 e 70 dollari, che consentirebbe a molti produttori di rimanere sul mercato con profitto. Questi livelli, ben più alti degli attuali, porterebbero tuttavia altri produttori fuori mercato e metterebbero in gravi difficoltà i bilanci di diversi Stati. Inoltre, diventerebbero sempre più importanti le caratteristiche dei diversi tipi di petrolio, sia in termini di costi di produzione che di trasporto e raffinazione. Si creerebbero così ulteriori squilibri tra le varie aree di produzione, aggravando i già rilevanti fattori geopolitici.