I recenti articoli sul Sussidiario di Paolo Annoni e di Zaccheo danno un’ampia idea di ciò che è in gioco realmente nella annosa vicenda Telecom Italia e in questo articolo vorrei partire proprio dalla domanda finale posta da Zaccheo: Vivendi sarà disposto a dare un assetto stabile a Telecom Italia e a investire i capitali necessari al suo sviluppo?
Finora Vivendi ha investito solo nell’acquisto sul mercato di azioni per arrivare alla quota del 24,9%, immediatamente sotto quella che costringerebbe a un’Opa obbligatoria, mossa questa che pone qualche domanda. Infatti, all’improbabile compagine denominata Telco (Telefonica, Mediobanca, Generali, Banca Intesa) è bastato il 22% per controllare, e immobilizzare, la società. Tuttavia, già nello scorso novembre il parigino Le Figaro (come riportatosu queste pagine), dava per probabile una crescita della quota Vivendi al 24,9% per contrastare l’entrata in Telecom Italia del concorrente francese Xavier Niel.
Quest’ultimo, con il suo 15% potenziale tra opzioni e derivati, sta giocando il ruolo del “convitato di pietra” in tutta la vicenda. Niel, il cui investimento a titolo personale e non con la sua società Iliad è stimato attorno ai 3 miliardi di euro, ha dichiarato di voler essere socio stabile di Telecom, di cui condivide le strategie e alle quali pensa di poter offrire supporto. Il suo intervento l’anno scorso è stato salutato favorevolmente dal presidente del gruppo italiano, Giuseppe Recchi, ma ha messo sul chi vive Vivendi, che ha dichiarato di voler rimanere stabilmente nella società, attribuendo invece a Niel intenzioni puramente finanziarie.
La concomitante e rilevante presenza dei due azionisti francesi ha attirato l’attenzione della Consob e dell’Autorità antitrust, ma sia Vivendi che Niel hanno smentito l’esistenza di qualsiasi accordo tra loro. Una smentita ovvia, dato che l’esistenza di un accordo tra i due potrebbe portare all’obbligo di lanciare un’Opa globale, ma anche credibile vista l’incompatibilità personale tra i due protagonisti, Niel e Vincent Bolloré, il patron di Vivendi.
Questo scenario rischia di rendere ancora instabile la situazione di Telecom, tenendo anche conto della possibilità di un cambio al vertice della società, in particolare dell’ad Marco Patuano. Uno dei punti di contrasto è il futuro della Tim brasiliana, su cui l’attuale management vorrebbe continuare a investire, ma che Vivendi vorrebbe mettere in vendita, per ridurre il forte indebitamento e concentrarsi sul mercato italiano. Una strategia coerente per Bolloré, che ha portato Vivendi dal settore telefonico a quello dei media ed è di conseguenza uscito dalle società telefoniche in cui era presente, da Sfr in Francia e da Telefonica Brasil. Da notare, tuttavia, che in cambio dell’uscita dal Brasile ha ottenuto lo 0,95% della capogruppo spagnola, partecipazione che lo pone tra i 10 maggiori soci di Telefonica España, dalla quale ha avuto la partecipazione iniziale in Telecom Italia a seguito della vendita agli spagnoli della brasiliana Gvt.
Una presenza così forte in Telecom Italia sembrerebbe quindi in contraddizione con la strategia seguita finora da Bolloré, il che ha dato la stura a una serie di ipotesi, tra cui un’operazione diretta all’entrata (fusione?) in Mediaset o la preparazione dell’entrata in Telecom di Orange, la principale società telefonica francese, in cui lo Stato ha mantenuto una quota di circa il 23%, direttamente e attraverso l’equivalente della nostra Cdp. I vertici di Vivendi e Orange hanno tenuto in proposito un atteggiamento possibilista passandosi, diciamo così, la palla, ma Recchi si è premurato di definire “fantasia” ogni ipotesi relativa a un intervento di Orange.
In effetti, in questo momento il gruppo francese è impegnato nell’acquisto di Bouygues Telecom operazione che porterebbe a tre gli operatori telefonici in Francia (sembra che Bruxelles non abbia nulla da ridire in questo caso, a differenza dell’eventuale fusione tra Wind e 3 Italia). L’operazione non è del tutto facile, perché il governo non vuole diluire troppo la partecipazione statale e per i limiti posti dall’antitrust. Orange vorrebbe concludere l’operazione entro questo mese e la soluzione che sta proponendo è la cessione di attività ai due concorrenti che rimarrebbero sul mercato: Sfr, la società ceduta da Vivendi all’ Altice del franco-israeliano Patrick Drahi, che investirebbe quattro miliardi, e Free, dell’ormai noto Xavier Niel, che investirebbe circa due miliardi.
In questo scenario, la domanda iniziale è difficile possa avere per il momento una chiara risposta e si può invece azzardare un’ulteriore ipotesi, facilmente definibile anche questa come pura fantasia, ma non alla luce della storia passata di Telecom Italia. Bolloré ha concentrato la sua strategia sui contenuti e sull’entertainment, come dimostrano anche le sue recenti operazioni in Francia sulle società di videogiochi Gameloft e Ubisoft, e si è parlato spesso del suo interesse per Mediaset Premium. Telefonica ha l’11% di Mediaset Premium, Vivendi lo 0,95% di Telefonica e il 24,9% di Telecom Italia: un rientro di Telefonica in Telecom potrebbe questa volta portare a una gestione coordinata delle due società telefoniche e delle attività di contenuti ed entertainment di Vivendi, con Vivendi come pivot.
Questa ipotesi è stata d’altronde avanzata in modo articolato lo scorso settembre da Natixis, ripresa all’epoca da diversi organi di stampa. Natixis, banca d’affari controllata dalle federazioni delle banche popolari e casse di risparmio francesi, ha delineato questo quadro entro il 2022, attribuendo a Bolloré l’intenzione di costruire un grande gruppo nel settore telefonico e media nell’Europa del Sud, includendovi anche Orange e Mediaset.
A questo punto si pone forse un’altra domanda: e noi italiani, solo spettatori o al massimo comprimari?