L’Antitrust ha dato la sua approvazione all’acquisto di Rcs Libri da parte di Mondadori, ma con condizioni restrittive che Marina Berlusconi, presidente della casa editrice, nel ribadire il valore strategico dell’operazione, ha definito “sacrifici pesanti”. In effetti, si tratta di dieci “misure correttive”, come le descrive l’Antitrust, che non si limitano a una riduzione del perimetro della nuova azienda per evitare eccessivi limiti alla concorrenza. In quest’ottica rientrano la richiesta di cessione di due case editrici, della Bompiani e della partecipazione nella Marsilio, e altre misure dirette a impedire un’eccessiva prevalenza di Mondadori-Rcs sui contratti con gli autori rispetto ai concorrenti.
Lo stesso obiettivo di salvaguardia della concorrenza hanno altre disposizioni che mirano a evitare che la forte presenza di Mondadori nella distribuzione vada a scapito di altre case editrici e che vi sia un peggioramento delle condizioni contrattuali alle librerie indipendenti o ad altre catene di distribuzione. Questi possono essere considerati obiettivi del tutto corretti, soprattutto per un settore delicato come quello della produzione libraria, quindi della cultura. Forse è questa la ragione per cui sono state aggiunte richieste di tipo finanziario in favore di iniziative fuor di dubbio lodevoli, ma che non sembrano aver direttamente a che fare con problemi di concorrenza. Si tratta del finanziamento di 225.000 euro per l’organizzazione e la gestione della Fiera “Più Libri più Liberi” nelle prossime tre edizioni, della donazione di libri a istituti scolastici e biblioteche pubbliche, carceri minorili e ospedali e della prosecuzione e sviluppo del progetto “In libreria per la classe”, che prevede attività e laboratori nelle librerie “per insegnare il piacere della lettura”.
Questo intervento dell’Antitrust ha riportato alla cronaca un’altra fusione su cui l’Autorità non si è ancora pronunciata, ma che può porre problemi ancor più gravi sotto il profilo di una posizione di eccessiva dominanza nel settore della cultura e dell’informazione: la fusione tra il Gruppo Espresso-Repubblica di De Benedetti e l’Itedi degli Agnelli, cui fanno capo La Stampa e il Secolo XIX. Come ha scritto Sergio Luciano su queste pagine, la fusione presenta diversi aspetti che dovranno essere affrontati dall’Antitrust, a partire dalle diciannove testate locali che fanno parte del Gruppo Espresso e che difficilmente potranno restare nella nuova struttura.
Accanto ai problemi di concorrenza emerge, però, il fatto evidente di una concentrazione “ideologica” nell’informazione italiana e il rischio di un appiattimento conformista, pericolo segnalato tra gli altri da Ferruccio de Bortoli, già direttore del Corriere della Sera, in un’intervista al Fatto Quotidiano e da Marco Travaglio, direttore dello stesso quotidiano.
È interessante la descrizione che su Repubblica Ezio Mauro, ex direttore del giornale, fa degli intrecci tra i due gruppi editoriali, a partire da quelli familiari, messi in risalto da Mauro. I due fondatori di Repubblica, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari, erano uno cognato di Gianni Agnelli e l’altro genero di Giulio De Benedetti, direttore per vent’anni della Stampa. Inoltre, pur essendo il Gruppo Espresso profondamente radicato in Roma, dice ancora Mauro, Carlo De Benedetti rimane pur sempre piemontese. Si potrebbe aggiungere che sia De Benedetti che la famiglia Elkann appartengono al mondo della finanza ebraica, ma Mauro sottolinea un’altra appartenenza, quella al mondo della sinistra.
Il Gruppo Espresso camminando “di fianco alla sinistra italiana, seguendo la mappa dei valori liberal-democratici, stimolandola ad evolvere in questa direzione“, mentre attorno alla Stampa “insieme all’impianto filo-governativo della più grande impresa italiana si è raccolta quella cultura liberale di sinistra che nasce dall’azionismo“. E continua affermando che, sia pure nelle “strade autonome e libere” delle due testate, “questo nucleo comune della cultura azionista ha creato anche, altrettanto naturalmente, dei liberi punti di contatto nella laicità, nel senso dello Stato, nel rispetto del mercato e delle sue regole, nella scelta europea dell’Italia, nell’identità occidentale del nostro Paese e della nostra democrazia.” Si direbbe un vero e proprio programma politico che dichiara apertamente quale sia sempre stato il vero punto di riferimento dei poteri forti italiani, il Partito d’azione, con buona pace dei post-comunisti del Pd.
Il Partito d’azione è per la maggior parte degli italiani uno sconosciuto e mi sembra opportuno parlarne brevemente, ricorrendo per tranquillità alla Treccani. Fondato nel 1942 con la confluenza dei partigiani di Giustizia e Libertà e di altri gruppi liberalsocialisti e repubblicani per combattere il fascismo, aveva anche l’obiettivo di superare l’antitesi di liberalismo e socialismo. Suoi uomini di punta erano il socialista Emilio Lussu e i radicaldemocratici Ferruccio Parri e Ugo La Malfa, ma proprio la contrapposizione tra queste due anime portò alla sua rottura nel 1946, con una parte che confluì nel Psi e una parte nel Partito Repubblicano.
Se il partito si dissolse, il suo approccio culturale e politico, con la pretesa di rappresentare la vera moralità di cui ha bisogno l’Italia, è rimasto e troverà molta più forza nella nuova aggregazione, che qualche commentatore ha definito il giornale del renziano Partito della Nazione. Tuttavia, secondo l’Unità.Tv, il vero Partito della Nazione sarebbe il Pd e ne attribuisce la paternità non a Renzi ma ad Alfredo Reichlin, storico esponente del Pci, che in un commento sulle elezioni europee ne attribuisce il successo a Renzi, ma lo ritiene inseparabile dal suo essersi presentato come il segretario di quel “partito della nazione di cui discutemmo a lungo ma senza successo anni fa con Pietro Scoppola al momento della fondazione del Pd” Forse aveva ragione l’Avvocato: in Italia per fare una politica di destra, occorre un governo di sinistra, della nazione o, ancora meglio, d’Azione.