Le rivelazioni dei Panama Papers sui paradisi fiscali non sono di certo le prime, né saranno le ultime, ma sembrano provocare reazioni più decise tra i governi, forse per il pesante coinvolgimento di politici di primo piano, dal premier islandese a David Cameron, dal ministro spagnolo dell’Industria al presidente ucraino Poroshenko. Così, i governi di Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Spagna hanno deciso di mettere in comune le loro informazioni per rendere più incisiva la lotta agli evasori e ai loro “paradisi”.
È senza dubbio un primo passo, ma gli esperti hanno già evidenziato le numerose difficoltà tecniche nella concreta applicazione dell’accordo. Viene inoltre sottolineata la necessità che esso venga esteso quanto meno agli Stati Uniti e al resto dell’Ue, in attesa di Cina e Russia. L’accordo prevede anche la redazione di una lista di Stati che possono essere considerati paradisi fiscali, anche se questa lista è già ben nota, seppur non molto utilizzata. Il motivo sembra rimandare all’evangelico “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.
Qualche anno fa la rivista americana Forbes stilò una classifica dei migliori 10 paradisi fiscali, che vedeva ai primi posti Delaware, Lussemburgo e Svizzera, davanti alle Cayman Islands, più famose sotto questo aspetto. La lista proseguiva con City di Londra, Irlanda, Bermuda, Singapore e Belgio. Da allora le cose sono un po’ cambiate, il Belgio ha rivisto le sue posizioni e il segreto bancario svizzero si è “dischiuso”, almeno per i cittadini americani a seguito diun’altra clamorosa fuga di notizie del 2008.
Tuttavia, non è molto dissimile l’elenco pubblicato l’anno scorso dal Tax Justice Network, un istituto di ricerca specializzato in questa materia e di cui fanno parte numerose istituzioni di vari Paesi (Italia esclusa). Questo elenco è intitolato FSI, cioè Financial Secrecy Index, e ha come criterio principale il livello di segretezza finanziaria. Non stupisce quindi che in testa alla lista sia la Svizzera, seguita da Hong Kong, Stati Uniti, Singapore, Isole Caimane, Lussemburgo, Libano, Germania, Bahrain, Dubai.
Sono interessanti alcune annotazioni degli estensori dell’elenco, per esempio quando fanno notare che la Svizzera ha accettato le regole Ocse per la condivisione delle informazioni, ma solo dal 2018 e riservandosi di decidere con quali Stati condividerle. O la critica agli Stati Uniti, molto attivi nel difendersi dai paradisi fiscali altrui, ma altrettanto restii a dare informazioni sulle proprie operazioni. Secondo un recente articolo di Bloomberg Businessweek, gli Stati Uniti si stanno avviando a diventare il più importante paradiso fiscale del mondo e suoi stati come Delaware, Nevada, South Dakota o Wyoming sono ormai temibili concorrenti delle più famose isole caraibiche.
Viene riconosciuto al Lussemburgo di aver fatto molti passi avanti, scendendo dal secondo al sesto posto nella classifica, mentre viene criticato il Regno Unito per la sua copertura di paradisi fiscali in molte sue dipendenze territoriali. Se le Isole Vergini Britanniche, le Caimane, le isole della Manica e via dicendo fossero state incluse tra i suoi dati, l’UK sarebbe balzata in cima all’elenco.
È decisamente sorprendente l’inclusione della virtuosa Germania, sia pure tra gli ultimi della lista, ma una ricerca condotta da uno dei partecipanti al Tax Justice Network indica che il sistema finanziario tedesco ospita almeno 2500 miliardi di euro esentasse di proprietà di non residenti. Sorge il dubbio di trovarsi di fronte a un comitato d’affari, da cui non sono estranei gli stessi governi che l’evasione dicono di voler combattere.
L’evasione fiscale non è tuttavia l’unico aspetto negativo della vicenda, perché la massa di denaro convogliata nei paradisi fiscali non deriva solo da evasori, ma anche da attività illecite già all’origine, come quelle della criminalità organizzata. Questi patrimoni non rimangono certamente “sotto il materasso”, vengono reinvestiti, o riciclati, e c’è da chiedersi come e attraverso chi. Una prima risposta viene da un recente articolo su queste pagine di Mauro Bottarelli sulla finanza oscura, le cosiddette dark pool o le operazioni over-the-counter, che rappresentano un ottimo veicolo per impiegare quei capitali. Questa finanza parallela è gestita da entità facenti capo al sistema bancario e finanziario americano e dell’Unione europea, che rappresentano l’ultimo lato del triangolo d’affari: evasori/investitori, Stati e sistema finanziario.
Un’altra parte di questa massa di denaro serve a sovvenzionare direttamente attività criminali, terroristiche o per mantenere al potere regimi dittatoriali. Sono significativi, per esempio, i casi relativi all’Africa elencati pochi giorni fa in un articolo del Guardian, che prende spunto proprio dai Panama Papers.
Un altro dossier rischia presto di balzare all’onore della cronaca, il cosiddetto Luxleaks, lo scandalo del 2014 portato alla luce dall’International Consortium of Investigative Journalists, lo stesso gruppo internazionale di giornalisti che ha gestito i Panama Papers. Nel processo iniziato in questi giorni in Lussemburgo, per il momento sono indagati gli autori della fuga di notizie, tra cui un funzionario della PricewaterhouseCoopers, la società americana di revisori e consulenti legali diffusa in tutto il mondo. L’accusa è di sottrazione di documenti, ma il dossier dimostra ampiamente come varie società americane si siano avvalse ampiamente di quel paradiso fiscale che è ancora il Lussemburgo. Non una sperduta isola, ma membro fondatore dell’Unione europea e sede della sua Corte di Giustizia.