La recente riunione dell’Opec a Vienna si è conclusa, com’era prevedibile, con un nulla di fatto per quanto riguarda la riduzione, o quantomeno il blocco, delle quantità di petrolio prodotto. D’altronde, un accordo in tal senso non era stato raggiunto neppure quando il prezzo del petrolio era attorno ai 30 dollari al barile, mentre ora è risalito verso i 50 dollari; inoltre, ancora una volta ha giocato un ruolo importante l’opposizione dell’Iran, tornato da poco tempo, cioè dopo l’accordo sul nucleare, a esportare petrolio. Gli iraniani non hanno tutti i torti nell’affermare che un tetto alla produzione globale dell’Opec non avrebbe molto senso senza stabilire quote prefissate per i singoli Paesi membri. Su questa base, però, rispetto alla produzione attuale si attribuiscono una maggior quota di più di un milione di barili al giorno, che andrebbe a scapito degli altri: inevitabile l’impossibilità di un accordo.
In questo quadro, viene salutato come un successo l’elezione di un nuovo segretario dell’Organizzazione, dopo quattro anni di tentativi falliti, cui si aggiunge l’aumento a 14 membri con l’entrata del Gabon, peraltro un produttore di dimensioni modeste. Anche in questa riunione si è confermato il ruolo guida dell’Arabia Saudita, la cui produzione vale quasi un terzo del totale Opec, ma la novità è stata il tono conciliante del nuovo ministro saudita del petrolio, anche nei confronti dell’Iran.
Una ragione può risiedere proprio nell’attuale prezzo del petrolio, ancora negativo per la maggior parte dei produttori ma che comincia a essere soddisfacente per i sauditi e altri Paesi del Golfo, dati i loro bassi costi di produzione. Un altro motivo può essere l’evidenziarsi di problemi per diversi produttori americani di shale oil e le conseguenti procedure di fallimento per le società più deboli sotto il profilo finanziario. Proprio il notevole incremento di produzione degli Stati Uniti, seguito alle nuove tecnologie di estrazione del petrolio da scisto, è stata una delle ragioni principali, se non la principale, della guerra del petrolio scatenata dai sauditi. Che hanno ora dichiarato di non avere alcuna intenzione per il futuro di “inondare” il mercato con il loro petrolio.
Le dichiarazioni finali della riunione di Vienna hanno cercato di fugare l’impressione di un’Opec ormai sostanzialmente inutile, ma qualche dubbio peraltro rimane, se non altro per i problemi al suo interno. Un esempio è l’incapacità di rispettare il limite di 30 milioni di barili al giorno stabilito a suo tempo per la produzione totale dell’Opec, che è stato costantemente superato di almeno due milioni di barili, grosso modo l’eccesso della produzione sul consumo totale di petrolio. Confrontando i dati di produzione del primo trimestre del 2016 con il dato annuale del 2015 si notano comportamenti molto diversi tra i membri dell’Organizzazione.
L’Arabia Saudita ha mantenuto sostanzialmente stabile attorno ai 10,1 milioni di barili al giorno la sua produzione, mentre Iraq e Iran hanno notevolmente aumentato la propria; sull’altro versante, Venezuela e Nigeria hanno costantemente diminuito la loro produzione, che risulta inferiore rispetto anche a quella del 2014, come per la Libia e l’Algeria. Venezuela e Nigeria, fino all’anno scorso rispettivamente sesto e settimo Paese nell’Opec con una quota complessiva superiore al 13%, hanno notevoli problemi interni, che vanno da rilevanti disordini sociali in Venezuela alla guerriglia islamista in Nigeria. Un’altra ragione probabilmente per cui i sauditi prevedono per la seconda metà dell’anno un prezzo del petrolio tra i 50 e i 60 dollari, livello che potrebbe rappresentare il tetto per i prossimi anni.
Sullo sfondo permangono le domande sull’evoluzione futura del consumo di petrolio, un’evoluzione che dipende da vari fattori, al di là di quello evidente di una ripresa economica globale sempre più attesa. In primo piano c’è la sempre maggiore attenzione prestata agli aspetti ambientali, che sta portando a un costante e rilevante aumento del ricorso a fonti di energia rinnovabili. I bassi prezzi del petrolio rendono queste fonti più vulnerabili dal punto di vista economico, un divario che verrà sempre più ridotto dallo sviluppo tecnologico.
Il progresso tecnologico agisce su più versanti: da un lato rende più conveniente il ricorso alle energie rinnovabili e, attraverso la maggiore efficienza degli impianti, riduce il fabbisogno di petrolio; dall’altro, consente una progressiva riduzione dei costi di produzione del petrolio stesso e rende più a lungo economico lo sfruttamento dei giacimenti esistenti. Malgrado ciò, si prevede per i prossimi anni la mancanza di diversi milioni di barili/giorno a causa dell’esaurimento di vecchi giacimenti e della diminuzione del numero dei nuovi per la pesante riduzione di investimenti in esplorazione e ricerca a seguito dell’attuale crisi. Tuttavia, il conseguente aumento dei prezzi potrebbe rendere di nuovo conveniente la produzione di parecchi pozzi di shale oil, attivabili in tempi molto ridotti rispetto a quelli tradizionali, determinando una nuova tensione sui prezzi.