Al vivace dibattito in corso sulla Brexit si stanno aggiungendo altri due temi piuttosto caldi, nascosti sotto gli acronimi Ceta e Ttip, cioè l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada e quello, ancora in discussione, con gli Stati Uniti. Pur nella differenza dei contenuti, due elementi accomunano i tre argomenti: il ruolo non soddisfacente assegnato alle sovranità nazionali all’interno delle istituzioni internazionali e la crescente insofferenza di fronte alle modalità assunte da quel fenomeno, peraltro inevitabile, che chiamiamo globalizzazione.

L’accordo con il Canada rischia di essere vittima del primo elemento. La firma dei trattati commerciali è tecnicamente competenza della Commissione europea, con successiva ratifica del Parlamento europeo, che non può tuttavia modificarli. Se un trattato ricade però nella cosiddetta competenza mista, occorre anche la ratifica di tutti i Parlamenti nazionali dell’Unione. I legali della Commissione, interpellati da Jean-Claude Juncker, avevano escluso l’applicabilità di questa norma al Ceta, ma l’opposizione di diversi Paesi, Germania e Francia in testa, ha fatto fare marcia indietro a Bruxelles. Significativa la presa di posizione del ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel, che ha definito “incredibilmente sciocca” la sola ipotesi che i Parlamenti nazionali non abbiano nulla da dire su un simile trattato. Un atteggiamento che è forse una conferma delle voci di un Juncker sotto attacco dei panzer tedeschi. L’unanimità di voto dei Parlamenti nazionali non è scontata e mette a rischio la firma di un trattato che, tutto sommato, non sembrava porre fondamentali problemi.

Seri problemi sono invece posti dal Ttip, nei confronti del quale l’opposizione è molto più forte e concentrata sui contenuti. Temi al centro del dibattito sono, per esempio, la forte diminuzione nella protezione dei prodotti tipici, particolarmente rilevante per l’Italia, e in generale l’agricoltura, con nette perplessità della Francia la cui agricoltura è particolarmente protetta, l’equiparazione delle regolamentazioni ritenuta pericolosa per molti settori europei, la possibilità per i grandi gruppi internazionali di intentare causa agli Stati sulla base del trattato. Soprattutto questi ultimi punti hanno fatto accusare da molti il Ttip di voler favorire in modo eccessivo i grandi e potenti gruppi americani, un’accusa portata avanti anche da gruppi di oppositori negli Stati Uniti.

Il colpo di grazia è venuto dalla Francia, con le dichiarazioni di fine giugno del Primo ministro Manuel Valls e quelle di pochi giorni fa del responsabile del Commercio con l’Estero, Matthias Fekl. Il primo, dopo aver affermato che nessun trattato di libero scambio dovrà essere firmato d’ora innanzi se non rispetta gli interessi dell’Unione e che la Francia veglierà perché ciò avvenga, ha aggiunto che il Ttip non va nella giusta direzione e sarebbe negativo per l’economia francese. Da parte sua, il ministro del Commercio Estero ha dichiarato impossibile la firma del trattato entro il 2016: “Tutti lo sanno, compresi anche quelli che nei comunicati dicono il contrario”. Ha poi continuato dicendo che non vi è nulla di peggio in una negoziazione di sentire affermare che occorre concludere a tutti i costi, con chiaro riferimento alla fretta degli americani. E ha concluso che non sarà di certo lui ad andare davanti al Parlamento per vendere a qualunque costo un accordo che giudicasse poco soddisfacente per il Paese. Una sorta di de profundis, come si vede.

Il Ttip, come l’equivalente Tpp già firmato dagli Usa con 11 Stati del Pacifico, è un pilastro della strategia di Obama per una vasta globalizzazione dei mercati sotto la ferma guida degli Stati Uniti. Questo modello di globalizzazione trova forti resistenze non solo in Francia, l’opposizione è forte anche in Germania, ma negli stessi Stati Uniti, dove sia Trump che Sanders e, più defilata, Hillary Clinton, si sono dichiarati contrari al Ttip. Solo Obama sta spingendo per la sua approvazione, perché sa che finito il suo mandato tutto verrà rimesso in discussione, compreso probabilmente il Tpp.

In questa vicenda la Brexit rappresenta solo ulteriore benzina gettata su un fuoco già ben acceso. Anzi, vi è chi osserva che se il Regno Unito uscisse realmente dall’Ue, diverrebbe più probabile una sorta di Ttip tra Usa e Uk, piuttosto che tra Usa e Unione europea. Il problema dei rapporti tra istituzioni europee e singoli Stati è presente comunque anche in questo dibattito. Una rilevante parte dell’intervento di Matthias Fekl è in polemica con il modo in cui la Commissione europea ha condotto le trattative sul trattato, con “continue promesse di crescita e di maggior occupazione, ma alla fine senza alcun risultato”. E poi l’accusa finale alla Commissione di aver di fatto abbandonato le trattative per passare alla fase della ricerca del capro espiatorio, vale a dire la Francia.

Ben diversa la posizione del governo italiano, acceso sostenitore di entrambi i trattati. Il ministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha sostenuto fino all’ultimo la posizione di Juncker e della Commissaria Ue per il commercio, la svedese Cecilia Malmstroem, in favore dell’esclusività della Commissione sul Ceta e, a proposito del Ttip, ha dichiarato che in un’epoca di globalizzazione “non si può star fermi.” Ma poi ha dovuto fare anche lui marcia indietro di fronte al ricostituito, sia pure temporaneo, asse franco-tedesco.