Le politiche economiche che Donald Trump sta delineando per gli Stati Uniti vengono frequentemente etichettate come protezioniste, quando non isolazionistiche. Tuttavia, possono essere esaminate anche sotto una diversa prospettiva: la cosiddetta economia a “chilometro zero”. È un’espressione attualmente piuttosto in voga in Italia e, forse, soprattutto tra chi critica più duramente la posizione del presidente americano. Eppure, anche l’economia a chilometro zero potrebbe essere tacciata di protezionismo, fondata com’è sul privilegio delle produzioni locali a scapito di quelle che provengono da lontano. Su una scala ben più globale, Trump sta in fondo proponendo qualcosa di simile: se vivo a New York, perché devo comprare prodotti dalla Cina e non dal vicino New Jersey o dalla più lontana, ma pur sempre più prossima, California?

La mia è una provocazione indirizzata a evitare quella dicotomia per cui protezionismo è comunque male e liberalizzazione è comunque bene, uno strabismo ideologico (come peraltro il suo contrario) che trae peraltro vantaggio dai consueti toni estremi di Trump. In questa contrapposizione manichea si giunge al paradosso di una Cina comunista che si erge a paladina del libero scambio e ciò è del tutto comprensibile dal suo punto di vista. La liberalizzazione del commercio, come attuata finora, ha portato grandi vantaggi alla sua economia, che continua però a essere totalmente controllata dallo Stato, anche là dove la proprietà è privata. D’altronde, non occorre essere accesi protezionisti per affermare che una liberalizzazione senza regole può solo avvantaggiare i più forti, siano essi Stati o imprese,o, se si preferisce, che finora sono stati sempre i più forti a dettare le regole. Questo timore ha indotto diversi Stati europei a rifiutare il Ttip, il trattato atlantico di libero scambio, fortemente sostenuto da Barack Obama.

Possono essere inquadrate in questo schema interpretativo le convulsioni che scuotono l’Unione europea, il cui possibile esito finale è stato recentemente ipotizzato dal “socio di riferimento”, la Germania, in un’Europa a più velocità. Si tratta di una presa d’atto della chiara disomogeneità esistente, e non risolta, all’interno dell’Unione europea, una situazione particolarmente grave per l’Eurozona e la sua moneta unica. Sorprende che su questa ipotesi si manifesti, o si finga di manifestare, sorpresa, perché un tale possibile risultato era già insito nel modo in cui è stato costruito l’euro e le incongruenze di questa costruzione già da lungo denunciate. Si legga per esempio l’intervista al professor Joachim Starbatty pubblicata sul Sussidiario nell’ormai lontano 2011, nella quale il professore tedesco prevedeva difficile la continuazione di un euro unito. Allora, tra le varie opzioni possibili, Starbatty riteneva improbabile che fosse la Germania a mettere in discussione la moneta unica, ma ora a Berlino probabilmente si pensa che l’euro abbia già dato quanto poteva dare e che sia più vantaggiosa la costituzione di un’area a moneta forte che leghi la Germania e gli Stati “virtuosi” del Nord.

Il rischio di un’economia a chilometro zero è di finire in un regime autarchico e questo rappresenta un pericolo anche per una potenza economica come gli Stati Uniti. Il danno sarebbe soprattutto grave per i suoi grandi gruppi multinazionali, che non a caso si oppongono a queste misure, come dimostra la dichiarazione di più di un centinaio di grandi imprese americane contro l’executive order di Trump sulla limitazione all’immigrazione. Ciò che si può ipotizzare è un commercio internazionale a “geometria variabile”, caratterizzato da un’ampia e variegata serie di accordi bilaterali o, comunque, estesi a un numero limitato di Paesi con interessi coincidenti. Un’economia mondiale, per così dire, a pelle di leopardo, che consentirebbe di mettere in comune interessi non contrastanti, in sostituzione di un’economia globale apparentemente liberalizzata e nella quale verrebbe di fatto rispettato, più che l’interesse comune, quello dei “potenti” di turno.

Difficile dire se la politica economica di Trump seguirà linee simili o se sarà schiettamente protezionista. Questa ultima ipotesi non sembra facile da attuare e rimane il dubbio che Trump stia portando avanti, piuttosto che una politica reale, una strategia di marketing per spuntare condizioni migliori nel nuovo scenario economico globale. Comunque sia, i Paesi più deboli, tra i quali spicca l’Italia, farebbero bene a prepararsi a un cambiamento della situazione del commercio mondiale e a individuare alternative strategiche che consentano loro di sfruttare al meglio i fattori tipici delle proprie economie.