In questi ultimi anni per il lavoro è stata una vera e propria rivoluzione, una rivoluzione peraltro per molti aspetti, ancora incompiuta. Tanti elementi hanno messo in crisi i più tradizionali parametri attorno a cui, dall’Ottocento a oggi, si erano costruiti modelli e valori del mondo lavorativo. I robot hanno soppiantato le vecchie catene di montaggio, le memorie dei computer hanno preso il posto dei polverosi schedari, l’Intelligenza artificiale ha già silenziosamente sostituito pratiche e procedure di ogni tipo. 



È sempre più vero quanto quarant’anni fa, nel 1981, Papa Giovanni Paolo II scriveva nell’enciclica Laborem exercens: “Se è vero che l’uomo si nutre col pane del lavoro delle sue mani, e cioè non solo di quel pane quotidiano col quale si mantiene vivo il suo corpo, ma anche del pane della scienza e del progresso, della civiltà e della cultura, allora è pure una verità perenne che egli si nutre di questo pane col sudore del volto, cioè non solo con lo sforzo e la fatica personali, ma anche in mezzo a tante tensioni, conflitti e crisi che, in rapporto con la realtà del lavoro, sconvolgono la vita delle singole società e anche di tutta l’umanità”.



Ora, per non farci mancare nulla, ci troviamo di fronte al combinato disposto di pandemia e nuove potenzialità tecnologiche che hanno creato nuove opportunità, a partire dallo smart working, ma che hanno dato luogo nello stesso tempo spazio a fenomeni di scontento e insoddisfazione se non di vera e propria alienazione di fronte al lavoro.

Paolo Iacci, docente di risorse umane alla Statale di Milano e impegnato su molti fronti nella gestione del personale, passa in rassegna questi problemi nel suo ultimo libro: “Smetto quando voglio – Il lavoro nel nuovo millennio tra quiet quitting e silenzio organizzativo” (Ed. Egea, pagg. 154, € 18). Negli Stati Uniti si è parlato di Great Resignation, di grandi dimissioni con le quasi cinquanta milioni di abbandoni del lavoro nel 2021 e 2022. Un fenomeno del tutto nuovo a cui hanno fatto seguito altri fenomeni come quel quiet quitting citato nel titolo, quasi uno sciopero bianco, il fare il minimo indispensabile nel proprio impegno lavorativo. “In Italia – sottolinea tuttavia Iacci – non ha propriamente senso parlare di Grandi Dimissioni, ma solo di Great Reshuffle, di un Grande Rimpasto. Questo nasce da un altro fenomeno, meno evidente, ma assai più profondo e pervasivo, che potremmo definire Great Rethinking, Grande Ripensamento. Dopo la pandemia nella testa delle persone non c’è solo il lavoro, ci sono la famiglia, la vita privata, le relazioni amicali, la propria salute”.



Sono così cambiate molte cose non solo negli atteggiamenti individuali, ma anche in quelle che potremmo chiamare le idealità collettive, i valori di fondo che guidano la società. E di questo dovrebbero tener conto, ma non è facile, anche le strutture organizzative così come i metodi di gestione manageriale. “Oggi – spiega Iacci – le organizzazioni si devono così districare tra una spinta verso la ricostituzione dell’impresa come rete sociale e di comunità, da un lato, e, dall’altro, un altrettanto forte spinta in senso opposto per una sempre maggiore flessibilità degli orari e per un’ulteriore libertà nei rapporti di lavoro, basati più sulla fiducia che sul controllo”.

È quindi necessario un cambio di prospettiva sia sul fronte individuale, sia sul fronte delle dimensioni aziendali. Con due aspetti particolarmente rilevanti: la multidisciplinarietà, cioè l’integrazione dei saperi superando la logica strettamente economicistica, e la riscoperta di quell’umanesimo, un valore fondamentale che sembrava dolorosamente scomparire nella civiltà delle macchine e dei computer.

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