Usciva ottant’anni fa nelle sale cinematografiche Usa il settimo lungometraggio di Charlie Chaplin Il Grande Dittatore, uno dei più celebri dell’intera storia del cinema. Svariati e in parte singolari ne sono i motivi. Prima di tutto il soggetto. Si tratta infatti di una parodia dei dittatori europei dell’epoca, punzecchiati nei loro tratti vanagloriosi e puerili in una ben calibrata commedia-farsa degli equivoci, che finisce col ribadire l’ideologia umanitaria e pacifista del suo autore. Chaplin, però, dichiarò in seguito che se avesse saputo allora cosa succedeva veramente agli ebrei in Europa non avrebbe avuto il coraggio di girare un film di taglio comico farsesco. Comunque sia, un contenuto di così stretta e tagliente attualità, per allora, richiese una buona dose di coraggio da parte del regista – stante anche l’elevato costo di produzione -, poiché la limitata distribuzione che un tale soggetto imponeva (anche la Gran Bretagna, inizialmente, non lo accettò, temendo di peggiorare i rapporti con la Germania) poteva ben determinarne il fiasco commerciale, dal quale forse la sua casa di produzione indipendente non si sarebbe sollevata facilmente. Fu invece il maggior successo commerciale della lunga carriera di Charlie Chaplin.
Poi, Il Grande Dittatore è l’ultimo film di Chaplin nel quale compare l’immortale maschera di Charlot, il vagabondo-clown con movenze da lord che tutti abbiamo ammirato e amato, che ha fatto la fortuna artistica del suo inventore e interprete. È questo anche il suo primo film parlato, sia dell’attore che della sua maschera (il precedente Tempi Moderni, del 1936, era anch’esso sonoro ma non parlato, ancora recitato secondo i canoni della pantomima muta), e come tale traccia una netta linea di demarcazione nella carriera del regista inglese.
Poi ancora, la presenza di almeno tre sequenze magistrali, entrate nell’immaginario collettivo del cinema di sempre: la danza del dittatore Hynkel con il grande mappamondo aerostatico; il barbiere ebreo – sosia del Dittatore – che sbarba un cliente al ritmo della Danza Ungherese n. 5 di Johannes Brahms; infine, il monologo dello stesso barbiere (il canto del cigno di Charlot) che, sostituitosi al suo sosia dittatore Hynkel, conclude il film con un accorato discorso intriso di fratellanza, speranza e pace. Finale poco apprezzato dai critici, per eccesso di retorica dovuta anche al repentino cambio di registro rispetto al resto, ma che convinse e commosse il grande pubblico. A favore di Chaplin va ricordato che il finale previsto dallo script originale doveva essere un altro, ma il precipitare degli eventi bellici (la sceneggiatura era pronta già dal novembre del 1938 mentre le riprese cominciarono nel settembre 1939) lo convinse a modificarlo in corsa. Visto sotto questa prospettiva, la celebre conclusione del film va indubbiamente rivalutata per sincerità di intenti.
Una formidabile parodia del dittatore nazista si ebbe anche con il film di Ernst Lubitsch To Be or Not to Be del 1942 (in Italia titolato Vogliamo Vivere!), il quale, pur non raggiungendo la fama del Dittatore, presenta risultati comico-grotteschi altrettanto apprezzabili, in alcune specifiche scene forse superiori al capolavoro chapliniano.
Proibito durante il fascismo – per ovvie ragioni, allorché il Minculpop dispose di “ignorare la pellicola propagandistica dell’ebreo Chaplin” (che ebreo non era) – Il Grande Dittatore uscì in Italia solo nel 1961 con tagli alle scene che riguardavano la moglie di Napoloni (per non urtare donna Rachele, vedova del Duce allora ancora vivente) e un doppiaggio discutibile, che storpiava i nomi di alcuni dei personaggi. Rieditato nel 2002 con il reintegro delle scene soppresse nel 1961, ma con un doppiaggio ancora approssimativo, il film è stato definitivamente restaurato di recente a cura del progetto Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna, e presentato in sala nel gennaio del 2016 in versione originale con sottotitoli.
Alla morte di Chaplin, avvenuta la notte di Natale del 1977, ebbe a dichiarare Federico Fellini: “È scomparso nella stessa atmosfera natalizia in cui lo vidi per la prima volta. (…) Da bambino lo vedevamo come un omino cui dovere gratitudine e lo si accettava come un fatto naturale, come la neve d’inverno, il mare d’estate, Gesù bambino. È una specie di Adamo, il progenitore da cui tutti si discende”. Giudizio sul filo dei sentimenti che ci sentiamo di condividere. Molti saranno coloro che ricordano con nostalgia gli anni in cui l’immancabile appuntamento natalizio con i film di Charlot era una sorta di dono atteso con impazienza, quando la tv era in bianco e nero ed esistevano solo i canali della Rai. Tantissimo ci distanzia ora, sia in termini di linguaggi che in termini di contenuti sociali, dai tempi della tv generalista di qualità e da quelli del magnifico cinema classico di Charlie Chaplin, ma ricordare oggi criticamente quei tempi e rivedere capolavori come Il Grande Dittatore non è affatto operazione di sterile nostalgia, ma Conoscenza e Cultura.