Vogliamo avere un’idea di come inciderà il calo demografico? Fra tre anni avremo 200mila diciannovenni in meno in Lombardia. Per le università lombarde, che hanno comunque una forte attrattività sia sugli studenti italiani che dall’estero, si apre comunque un problema di competitività per mantenere tutte le attività come oggi. Sarà un problema per il nostro sistema produttivo che già oggi lamenta che vi sono pochi lavoratori con formazione terziaria e domani vedrà anche un calo in termini di numeri assoluti.



È a partire da questo sfondo preoccupante che è iniziata l’illustrazione dei risultati del terzo rapporto fatto dall’osservatorio sul lavoro e le università in Lombardia ospitato da Assolombarda. Centrale è stata l’analisi del rapporto con il mercato del lavoro dei laureati magistrali dell’Università Statale e dell’Università Bicocca. Un campione interessante perché riguarda due università “generaliste” e non a forte caratterizzazione come Politecnico o Bocconi. L’analisi riguarda i laureati fra 2017 e il 2023 e si sono i raccolti i dati delle comunicazioni obbligatorie che li riguardano.



Stiamo parlando comunque di un’area economica dove si studia di più e ci sono più occasioni di lavoro. Con studi universitari è il 35,2% della popolazione lombarda in età lavorativa, contro il dato nazionale 30,6% e quello dell’Ue a 27 pari al 43%. Hanno un tasso di occupazione dell’86,4%, cinque punti in più del dato nazionale. Vero che si tratta di una regione con tasso di occupazione complessivo del 78% e che resta pressoché stabile nel tempo. Che studiare serva lo dicono anche i salari di ingresso: crescono al crescere degli anni di studio e mediamente aumentano del 4% dopo cinque anni.



In questo quadro lombardo i dati delle due università milanesi permettono di vedere con chiarezza che nel corso del quinquennio preso in considerazione il mercato del lavoro è cambiato. I contratti a tempo indeterminato già alla prima assunzione passano dal 6% al 20%. A cui sarebbe corretto aggiungere il 6% di apprendistato. Rimangono pressoché stabili i tempi determinati intorno al 45%. Il calo riguarda tirocini e contratti flessibili. Dato che andrà in futuro analizzato nel merito è un 20% che non figura avere nessuna comunicazione obbligatoria. Si tratta della quota di laureati che va all’estero o fa un lavoro autonomo. Per quanto riguarda il trasferimento all’estero c’è un dato regionale, anche qui con esclusione di Politecnico, Bocconi e Cattolica, che calcola nell’8% (balza al 15% se si sommano le tre università escluse) la quota dei laureati che va per primo lavoro all’estero. Significativo che il 50% si divide equamente fra chi ha scelto perché ha ricevuto una buona offerta di lavoro e chi non già trovato nulla che corrispondesse alla sua specializzazione in Italia.

Eppure il mercato del lavoro per i laureati di Statale e Bicocca funziona. Entro 118 giorni dalla laurea trovano una occupazione i laureati in materie umanistiche e dopo 82 in media i laureati in materie Stem.

La carriera è complicata per tutti, ma i dati aggregati ci dicono che indipendentemente dal tipo di contratto entro tre anni il 40% si dimette volontariamente per migliorare la propria posizione lavorativa. Peraltro dopo tre anni il 43% ha migliorato la propria posizione, il 51% ha mantenuto la posizione di stabilità e il 7% l’ha peggiorata. Si fa qui riferimento alla tipologia contrattuale per cui è stabile anche se resta fisso con contratto flessibile il 14% degli assunti, mentre fra chi ha magari migliorato la condizione lavorativa vi è chi è passato da tempo indeterminato a determinato.

La mobilità dei laureati sul mercato del lavoro è fortemente volontaria e riprende i motivi già visti in altre indagini. Centrale è il rapporto lavoro e qualità della vita. La trasparenza rispetto alla formazione e alla carriera, la flessibilità sul lavoro a distanza, la conciliazione famiglia-lavoro, la condivisione dei valori di impresa e i rapporti aziendali sono i fattori che spingono alla mobilità volontaria. Gli aspetti salariali sono certamente presenti, ma non sono l’unico fattore di scelta.

Dal lato delle imprese si registra anche in questa indagine la pesante situazione di mismatching fra esigenze del sistema produttivo e formazione dei giovani che arrivano sul mercato del lavoro. La situazione per il livello terziario ha aspetti quantitativi legati all’andamento demografico più che alla formazione. L’area milanese esercita un’attrazione per laureati in materie umanistiche ed economiche che determina flussi dal resto del Paese. Il mondo sociosanitario è l’altro fattore attrattivo delle professionalità alte verso Milano e la Lombardia.

I dati presentati illuminano una realtà che nel corso degli ultimi anni ha mantenuto capacità formativa e un mercato del lavoro che ha saputo accogliere le professionalità formate. Resta un orizzonte di calo del numero di giovani con formazione terziaria per ragioni demografiche e perché restano ancora pochi i lavoratori con alta formazione. Il tema di un capitale umano sempre più impoverito nei numeri e con un accentuato mismatching nelle competenze richiede interventi decisi.

In parallelo all’indagine sulle università milanesi e lombarde veniva presentata l’indagine Ocse sulle competenze della popolazione adulta. In generale noi risultiamo quartultimi fra i Paesi dell’area sia nella capacità di comprensione di testi che nell’uso dei numeri che nelle competenze problem solving. In questo dato nazionale medio pesano le differenze nord-sud, ma soprattutto che la condizione peggiora con il passare del tempo. L’invecchiamento delle persone si accompagna con una perdita di competenze.

Aumentare quanti arrivano sul mercato del lavoro con un livello terziario è indispensabile quanto lo è assicurare un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita perché le competenze acquisite non si disperdano ma anzi si arricchiscano. Non è più solo un problema dei lavoratori. La crescita della produttività del sistema Italia e delle sue imprese ha bisogno di più formazione di base e lungo tutto l’arco della vita.

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