Il documento pubblicato dalla Business Roundtable, un’associazione che riunisce al suo interno 181 grandi imprese multinazionali di origine statunitense (tra le quali General Motors, Amazon, Apple, Jp Morgan, Accenture, per citare alcune delle più note), che delinea un nuovo percorso per affermare un nuovo modello di impresa socialmente responsabile, rappresenta una novità assoluta nel panorama economico e sociale internazionale.



Non tanto per i contenuti. Le caratteristiche dell’impresa che cerca di contemperare gli interessi degli azionisti con quelli dei dipendenti, dei consumatori, dei fornitori, valutando l’impatto delle proprie scelte sull’ambiente e nelle comunità locali, è da molto tempo delineato in quel corpo di valori, studi  e metodologie che viene riassunto nel termine Corporate Social Responsability, che trova riscontro anche in assetti normativi, soprattutto in ambito europeo, e nella formulazione dei cosiddetti bilanci sociali delle imprese. In senso lato questi contenuti sono la proiezione di quell’economia sociale di mercato, con una forte dose di interventismo statale, che rimane un connotato identitario dei paesi della vecchia Europa. La novità è rappresentata dal fatto che tale modello viene auspicato dalle principali imprese che sono accusate di alimentare quello che in gergo economico viene definito con il termine “turbocapitalismo”. Una definizione attribuita all’economista americano, e  ministro del Lavoro del gabinetto di Clinton, Robert Reich che ne ha analizzato compiutamente le caratteristiche: una competizione spinta tra le imprese rivolta a sfruttare i vantaggi competitivi su scala globale, in termini di  tecnologie, costi del lavoro, agevolazioni normative e fiscali; per l’obiettivo primario di aumentare i profitti a vantaggio degli azionisti.



È il modello accusato di essere all’origine degli squilibri economici e sociali correlati alla globalizzazione della economia e degli scambi commerciali, con conseguenze nefaste sulla distribuzione del reddito e sull’impatto ambientale, e con effetti destabilizzanti sugli equilibri politici e sociali interni ed esterni alle singole nazioni.

Forse queste critiche trascurano i benefici prodotti dalla globalizzazione, soprattutto sulla diminuzione drastica delle popolazioni in condizione di povertà assoluta. Ma gli effetti destabilizzanti dell’ipercompetizione sono sotto i nostro occhi. E del tutto evidenti le implicazioni, che possono minare alla radice la stessa legittimità del modello capitalistico che con diverse sfumature viene fatto convivere con regimi democratici o autoritari  e che viene accettato su scala internazionale.



Il salto di qualità richiesto è paragonabile a quello operato con il New Deal di rooseveltiana memoria e fondato sulle premesse di stampo keynesiano avvenuto negli anni ’30 del secolo scorso, e consolidato nei paesi sviluppati nel corso del secondo dopoguerra. Con la differenza, non marginale, di avere a che fare nei tempi odierni con una complessità di interessi senza precedenti, con istituzioni statali indebitate e indebolite dalle iniziative di forze economiche e finanziarie che operano a livello transnazionale.

Tradurre in pratica gli auspici di ricostruire nuovi equilibri tra valori, comportamenti e scelte produttive non sarà affatto semplice. Il sospetto, ventilato da molte voci critiche, che l’uscita delle imprese multinazionali possa essere annoverata come un tentativo rivolto a pulirsi la coscienza non è infondato. Ma è altrettanto vero che  le multinazionali che hanno deciso di pronunciarsi in questo senso sono dotate di una forza economica e di una massa critica di iniziative in grado di condizionare gli eventi e di provocare a catena una straordinaria mobilitazione di energie collettive.

A noi decidere di far parte di questo movimento, ovvero annegare nella miseria delle illusioni sovraniste.