Quando si parla del Maxiprocesso di Palermo, così come accade nel film “Io, una giudice popolare al Maxiprocesso” in onda oggi su Rai Uno, ci si riferisce allo storico processo contro Cosa Nostra svoltosi nell’Aula bunker del Carcere Ucciardone di Palermo tra il 10 febbraio 1986 e il 16 dicembre 1987. Un processo che rappresentò la prima vera reazione dallo Stato italiano rispetto ad una mafia siciliana che in quegli anni, a seguito della cosiddetta “mattanza” – ovvero il golpe militare all’interno di Cosa Nostra operato dal Clan dei Corleonesi per sostituire al vertice della Cupola l’ala “moderata” dei mafiosi – aveva portato all’uccisione di rappresentanti dello Stato come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Gaetano Costa, Piersanti Mattarella, Carlo Alberto dalla Chiesa e Pio La Torre. Ad avere l’intuizione di convogliare in un unico “Maxiprocesso” tutti i diversi filoni investigativi, così da ottenere uno sguardo d’insieme rispetto al fenomeno mafioso, fu per primo Rocco Chinnici, all’epoca capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Fu sua l’idea di affidare ad un gruppo ristretto di magistrati specializzati la gestione dei casi, favorendo tra loro la condivisione delle informazioni. Il risultato del lavoro del Pool, originariamente composto dai giudici istruttori Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, in coordinamento con quello del capo della Squadra Mobile, il vicequestore Ninni Cassarà, colpì come mai prima Cosa Nostra. Non a caso la Cupola reagì uccidendo prima del Maxiprocesso due grandi protagonisti di quella stagione: Rocco Chinnici e Ninni Cassarà.



MAXIPROCESSO: IL RUOLO DI TOMMASO BUSCETTA

Nel Maxiprocesso di Palermo, tenutosi nell’Aula bunker appositamente costruita per scongiurare il rischio di attentati e fughe dei detenuti, a finire la sbarra con diversi capi d’accusa, tra cui quello di associazione a delinquere di stampo mafioso, furono in tutto 468 imputati. Decisivo fu il ruolo giocato dai pentiti di mafia, in particolare Tommaso Buscetta, il “boss dei due mondi” che in Aula spiegò minuziosamente la natura verticistica della Cupola mafiosa, al cui interno ci si riferiva con l’espressione di “Cosa nostra”. Il collaboratore di giustizia parlò del rigido regolamento di natura orale presente all’interno dell’organizzazione, governata da una Commissione composta dalle famiglie mafiose più importanti, le stessi che davano i nomi ai “mandamenti” con cui venivano suddivise la città di Palermo e la sua provincia. L’11 novembre 1987, alle 11:15, dopo 349 udienze e 21 mesi dall’inizio del processo, la Corte entrò in camera di consiglio. Il 16 dicembre 1987 alle 18.07, conclusasi la camera di consiglio, il Presidente Alfonso Giordano diede inizio alla lettura delle sentenze.



MAXIPROCESSO: SENTENZE E IMPORTANZA STORICA

In tutto, al Maxiprocesso, furono comminate 346 condanne (74 in contumacia), tra cui 19 ergastoli, per un totale di 2665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe. Le assoluzioni furono 114. Tra gli ergastoli risaltano quelli decisi per il “Papa” Michele Greco, Pippo Calò, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. La sera stessa terminò la tregua ordinata dalla Cupola: a decretarla fu l’uccisione di Antonino Ciulla, trucidato mentre tornava a casa con un vassoio di cannoli per festeggiare l’assoluzione. Con il Maxiprocesso finì però il mito dell’impunità della mafia: assunto che mise in crisi la leadership di Totò Riina. Questi reagì scatenando la stagione stragista che portò, anni dopo, all’uccisione dei giudici Falcone, Borsellino, e di altri interpreti della legalità. Resta però l’eredità del Maxiprocesso come insostituibile momento di reazione nella storia italiana nei confronti di Cosa Nostra: come segnale incontrovertibile del fatto che lo Stato non era disposto a tollerare alcuna forma di convivenza o subalternità rispetto alla mafia.

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