Che le piccole e medie imprese italiane abbiano fatto e continuino a fare la fortuna economica del nostro Paese è un dato incontestabile e ormai fortunatamente accettato da una grande maggioranza di economisti e politici. Una burocrazia inefficiente e bizantina, una tassazione iniqua e pesante non hanno impedito loro di competere con successo sui mercati internazionali. Anche i più accaniti sostenitori del mondo delle pmi, però, si guardano bene dal trascurare l’importanza delle grandi imprese il cui ruolo non può essere sostituito nemmeno dal più dinamico e produttivo sistema di distretti e di piccole imprese.
La scorsa settimana, per esempio, molti lettori del prestigiosissimo Financial Times, vera bibbia dei mercati finanziari europei, si saranno chiesti con una certa sorpresa le ragioni dell’elogio fatto a Finmeccanica e al suo attuale presidente (Pier Francesco Guarguaglini) dopo il lancio dell’offerta sull’americana Drs Technologies. Un’operazione che ha meritato un editoriale del principale quotidiano economico europeo. In modo del tutto inaspettato, infatti, la piccola (rispetto ai giganti del settore) multinazionale nostrana sembrerebbe essere riuscita ad aggiungere un altro importante tassello alla sua strategia di espansione nel settore dell’elettronica per la difesa (a meno di un possibile rilancio dei concorrenti). L’operazione inattesa, che comporterà una spesa totale di circa 3.5 miliardi di euro, ha destato il disappunto del colosso franco-tedesco EADS, che per bocca del suo amministratore delegato ha dovuto ammettere di avere perso una delle acquisizioni della propria “target list”.
Non è la prima volta che Finmeccanica sale agli onori della cronaca negli ultimi anni. Quest’ultima acquisizione arriva infatti dopo la conquista di molti importanti contratti internazionali, tra cui il più prestigioso relativo alla fornitura di elicotteri per il presidente degli Stati Uniti, a dimostrazione di una leadership nel settore derivata anche dall’acquisizione dell’inglese Westland. Il fatto, oltre ad aggiungersi alle molte altre ragioni che hanno fatto meritare a Finmeccanica l’ammirazione e la stima di investitori e operatori del settore, mette in evidenza un particolare settore della nostra economia. Finmeccanica è una delle poche imprese “statali” ancora rimaste in Italia e, se osserviamo quanto successo negli ultimi anni, dobbiamo ammettere quanto questo genere di imprese sia stato importante per la nostra economia. Eni da decenni si distingue in tutto il mondo per la propria competenza e per la leadership tecnologica, Enel ha appena concluso la più importante fusione degli ultimi anni tra le utilities europee, Fincantieri è leader nel suo settore di competenza, le local utilities stanno attraversando un periodo di fusioni e integrazioni che potrebbe permettere di competere anche in qualche mercato europeo. Alitalia può probabilmente essere considerata una pessima eccezione rispetto a quanto dimostrato dalle sue “sorelle”. Infine altre imprese statali insieme a quelle già quotate potrebbero tornare a giocare un ruolo importante se l’Italia decidesse finalmente di scegliere l’opzione nucleare.
Affermare e riconoscere gli indubbi meriti di cui abbiamo parlato e l’importanza che tuttora rivestono le imprese pubbliche, non significa ovviamente esaltare il ruolo dello Stato nell’economia, né essere favorevoli a un ritorno in auge di improbabili piani quinquennali sovietici. D’altra parte non c’è Paese sviluppato e moderno (compresi gli Stati Uniti) in cui lo Stato non eserciti un qualche tipo di intervento diretto nell’economia. In Europa non si contano le imprese a controllo statale quotate sia nei classici settori di intervento pubblico (energia, trasporti, difesa) sia, in alcuni casi, in settori del tutto atipici, a seconda della storia particolare del Paese (la bassa Sassonia è ancora il secondo azionista di Volkswagen). Possiamo affermare che tra le tante risorse di cui disponiamo per un nuovo sviluppo economico rientrino anche queste imprese così particolari, che per decenni hanno rappresentato un fondamentale pezzo del nostro sistema produttivo. Un ruolo che non aveva quasi paragoni tra le economie occidentali fino all’inizio degli anni ‘90, quando una stagione di privatizzazioni molto discutibili (per il prezzo e il modo, non per la cessione dei “panettoni di stato”) ha in pochi anni fortemente ridimensionato e quasi annullato le imprese a partecipazione statale.
Un periodo che ancora oggi merita un’attenta lettura se non altro per la miniera di informazioni che si possono trarre e che danno una chiave di lettura indispensabile per comprendere il nostro attuale sistema economico-finanziario. Il tema delle partecipazioni del Ministero del tesoro sarà oggetto da qui all’inizio di giugno di dibattiti e scontri politici duri quando il nuovo governo dovrà procedere alle nomine di Eni, Enel, Terna, Finmeccanica e Poste (circa 170 miliardi di euro di valore per le sole quotate). Proprio per quanto appena scritto sarà un momento importante non solo per il mondo politico, ma anche per il futuro economico dei prossimi anni; così come sarà utile, a prescindere dalla decisione finale di cederle o mantenerle, una riflessione approfondita sul destino delle partecipazioni statali prima di pentirsi di scelte affrettate o mal ponderate.