Dare la possibilità di riportare le rate del mutuo, esplose dopo il rialzo dei tassi di interesse, al livello del 2006 è sicuramente un fatto positivo per centinaia di migliaia di famiglie italiane (l’Abi ha calcolato che la convenzione con il governo ne interesserà un milione e 250mila), ma gli effetti del provvedimento non possono essere equiparati al risparmio secco e definitivo che comporterà il taglio dell’Ici.

Per comprendere gli effetti del provvedimento del governo contro il caro mutui è forse utile fare qualche passo indietro e osservare le dinamiche che si sono verificate negli ultimi anni. Nel momento in cui si contrae un mutuo si pone la scelta se stabilire un tasso di interesse fisso o variabile; nel primo caso si dà origine al pagamento di una rata stabile, nel secondo la rata cambia al variare del tasso di riferimento scelto (normalmente l’Euribor). Stabilire a priori cosa sia effettivamente conveniente è sostanzialmente impossibile, dato che occorrerebbe “azzeccare” previsioni macroeconomiche su un orizzonte temporale molto lungo (che coincide con la durata del mutuo). Prevedere per i prossimi vent’anni tassi di crescita economica, eventi politici traumatici (guerre, attentati) e linee di comportamento di autorità monetarie è chiaramente un esercizio che non si può chiedere né a chi contrae un mutuo, né alle banche né a economisti o premi Nobel.

I problemi e in alcuni casi i drammi di tante famiglie che hanno contratto mutui a tasso variabile dipendono da due anomalie che si sono verificate a breve distanza l’una dall’altra negli ultimi anni. Nel 2006 i tassi di riferimento erano particolarmente bassi ed erano ai minimi storici: le autorità monetarie dopo la crisi economica successiva all’11 settembre avevano con prontezza e decisione abbassato i tassi per stimolare l’economia. Da metà 2006 ci sono stati rialzi dei tassi di riferimento costanti e ravvicinati per scongiurare i pericoli derivanti dal rischio di inflazione.

Allo stesso modo, chi ha contratto il mutuo ha fatto i suoi conti su una rata particolarmente bassa che si è impennata in modo eccezionalmente repentino. A questa situazione si è aggiunta una crescita economica debole che ha ulteriormente esasperato le difficoltà delle famiglie. In questo contesto il governo ha agito nell’unico modo possibile stabilendo una procedura semplice e accessibile per tutti che dà la possibilità di rinegoziare la rata all’interno di una convenzione unica valida per tutte le banche.

Quello che è forse sfuggito ai più è che le eventuali “perdite” in cui incorrerà la banca saranno addebitate al cliente sotto forma di un allungamento del mutuo. Senza nulla togliere all’estrema praticità e facilità di accesso del provvedimento (che è sicuramente un grande merito), è facile intuire le ragioni della totale disponibilità dell’Abi nei confronti dell’azione del governo che non solo non penalizza le banche, ma evita gli sforzi per trattenere il cliente attratto dalla proposta di sostituzione del mutuo di un’istituzione concorrente. Adottare provvedimenti penalizzanti o punitivi sulla vicenda del caro mutui sarebbe stato peraltro impossibile sia da un punto di vista “formale” (il cliente ha liberamente contratto un mutuo a tasso variabile), sia da un punto di vista sostanziale (anche per le banche sono aumentati i costi del finanziamento).

La tregua del nuovo esecutivo con il mondo bancario non è però destinata a durare all’infinito, dato che per il nuovo super ministro dell’economia la “rendita di congiuntura” da colpire si annida proprio tra le pieghe dei conti economici delle banche italiane. A questo riguardo difficilmente si potrà vedere con sfavore un riequilibrio delle pretese del fisco sui diversi settori produttivi. Infatti, da una semplice osservazione dei bilanci delle società quotate emerge abbastanza nettamente la differenza tra le aliquote fiscali delle imprese industriali e quelle di banche e società finanziarie. Sarà compito arduo per l’Abi sostenere che un’impresa industriale alle prese con la concorrenza dei paesi emergenti, con un dollaro ai minimi di sempre e con i normali problemi di gestione debba pagare qualche punto percentuale di tasse in più di una banca. Sarebbe poi ancora più difficile impedire al governo nazionale di riappropriarsi in qualche modo di quelle tasse che in modo del tutto legale sono state evitate (o lo potranno essere in futuro) con lo spostamento di intere attività finanziarie in Irlanda (assicurazioni) e in Lussemburgo (risparmio gestito), dove il fisco è infinitamente meno pretenzioso di quello italiano.

Non è nell’interesse di nessuno colpire indiscriminatamente un settore fondamentale della nostra economia, che oltre tutto ha mostrato negli ultimi anni una vitalità encomiabile (fusioni, acquisizioni all’estero, efficientamento, ecc.) e che sta attraversando un periodo di difficoltà, eppure in un momento in cui reperire risorse senza aumentare la tassazione delle famiglie sta diventando sempre più difficile l’idea di Tremonti potrebbe essere il minore dei mali. Meglio tassare subito le banche che hanno strumenti e tempo per “rifarsi” in futuro, piuttosto che affossare irreparabilmente i conti già malandati di imprese e famiglie.