Mentre sulle borse si manifestavano gli effetti della peggiore turbolenza finanziaria dalla seconda guerra mondiale, Unicredit presentava il nuovo piano industriale triennale a Vienna, catalizzando l’attenzione della comunità finanziaria europea. Le presentazioni dei piani industriali rappresentano, già in contesti “normali”, occasioni irripetibili sia perché delineano le strategie della società sia, e soprattutto, perché danno informazioni di prima mano sulla visione che del mercato ha il management, visione infinitamente più approfondita e affidabile di quella di qualsiasi osservatore esterno. L’evento rivestiva poi una particolare importanza per due motivi principali. Unicredit è una delle maggiori banche europee ed è tra i leader del mercato in Germania, Italia, Austria e nell’Est Europa. Il piano è stato presentato in un contesto economico tra i più difficili degli ultimi decenni per le istituzioni finanziarie.



Già qualche mese fa l’ad di Unicredit, Alessandro Profumo, aveva dichiarato che l’attuale crisi è così sistemica da determinare la fine di alcuni meccanismi di finanziamento e di gestione dell’attività  bancaria, che da anni erano consolidati tra le banche europee (primo fra tutti l’ “originate to distribute”); il nuovo piano è l’evoluzione compiuta delle conclusioni embrionali che Profumo aveva già deciso di condividere con il mercato. Tra i pochi target del precedente piano che Unicredit non è riuscita a raggiungere, spicca l’obiettivo di ricavi per la divisione investment banking. Come già largamente scontato dalla comunità finanziaria e anticipato da Unicredit, l’obiettivo è stato dichiarato non raggiungibile per la sopraggiunta crisi del mercato del credito, che due anni fa non era assolutamente prevista da alcuna banca europea e che l’ubriacatura per i facili e rotondi guadagni della finanza più sofisticata e complessa rendeva del tutto non preventivabile. Nel nuovo piano si possono individuare due linee di sviluppo. La prima prevede la progressiva riduzione del capitale allocato all’investment banking in favore della tradizionalissima banca commerciale. Il mare magnum della finanza mondiale è diventato difficile da navigare anche per gli operatori più grandi ed esperti (come dimostrano i casi di SocGen, Bear Stearns e gli aumenti di capitale effettuati da alcuni big della finanza a stelle e strisce) e nei prossimi anni la lotta sarà presumibilmente più per sopravvivere che per ottenere facili e pingui utili. Unicredit pur avendo deciso di non abbandonare l’attività di market and investment banking ha scelto di concentrarsi sulla impressionante rete di filiali che ha costruito in Europa.



 

 

Il network sarà ulteriormente ampliato e Unicredit lavorerà perché tutte le sue potenzialità siano liberate. L’obiettivo è sfruttare le sinergie per offrire ai clienti servizi difficilmente replicabili dalla concorrenza (si pensi solo alla presenza delle pmi italiane in Est Europa). La seconda evidente linea di sviluppo prevede un deciso spostamento degli investimenti in Est Europa, dove nei prossimi tre anni verranno aperte 1300 nuove filiali. In questa regione, l’economia cresce a ritmi doppi o tripli rispetto ai mercati maturi di Germania, Austria e Italia e non sembra per il momento risentire del rallentamento avvertibile chiaramente in molte altre nazioni europee. Anche in questo caso, la rete creata negli ultimi anni a colpi di acquisizioni presenta chiare potenzialità per ottenere sinergie e risparmi di costi. I tagli annunciati di dipendenti per l’Europa occidentale (peraltro limitati) non riguarderanno l’Est Europa, in cui sono previste invece migliaia di nuove assunzioni. Dopo anni di finanza strutturata, di mutui sub-prime e near-prime, di commissioni esplose per la vendita di derivati estremamente redditizi a piccoli imprenditori (in cui anche Unicredit ha fatto la sua parte), si ritorna a parlare di filiali, clienti e investimenti che vanno dove c’è la crescita economica. Se nel piano di Unicredit si riuscisse a leggere una sorta di spostamento verso l’economia reale delle banche europee, si potrebbe cominciare a vedere la luce in fondo al tunnel della crisi finanziaria (sempre ammesso che non sia già troppo tardi).