Venerdì a mercati chiusi è arrivata la notizia dell’Opa lanciata dal principale azionista (66%) sulla totalità delle azioni di Navigazione Montanari, azienda di medie dimensioni e posseduta dalla famiglia fondatrice (è quotata sul mercato di Milano dal 1932), attiva nel trasporto marittimo di petrolio e prodotti raffinati.
Anche la storica Navigazione Montanari, a meno di sorprese al momento non preventivabili, lascerà quindi il listino tra poche settimane. Alla nuova moda di piazza Affari, il delisting, si aggiunge un’altra società dopo Marazzi, Cremonini e prima ancora Ducati, mentre i rumor di altri possibili delisting girano insistentemente sulla borsa di Milano. Il prezzo offerto (3,1 euro per azione), come negli altri casi, non solo non è particolarmente esaltante, ma è sensibilmente inferiore ai massimi raggiunti lo scorso anno, eppure c’è da scommettere che anche questa volta, dati i tempi di vacche magre che corrono, gli investitori dovranno fare buon viso a cattivo gioco e consegnare le azioni.
Nel frattempo le nuove quotazioni languono e perfino la più blasonata delle banche italiane, Intesa Sanpaolo, non è riuscita nell’intento di portare in borsa il suo spin-off immobiliare Immit, società tranquilla fino al punto di essere noiosa e che sarebbe stata perfetta per l’attuale fase di mercato. Escludendo il caso di Ducati, portata via dal mercato a multipli stellari e probabilmente irragionevoli, le società che hanno lasciato il mercato non stavano scontando valutazioni aggressive o scenari di crescita futura improbabili. Gli imprenditori, che meglio di chiunque altro conoscono le loro aziende e il settore in cui operano, guardano agli attuali prezzi di mercato come a delle imperdibili occasioni per poter acquistare azioni della propria società con poca spesa; occasioni così irresistibili da rinunciare ai vantaggi che la quotazione offre, vantaggi che in alcuni casi hanno contribuito in modo non trascurabile ai successi delle aziende stesse.
Le società delistate, seppur attive in settori diversissimi, presentano alcune caratteristiche comuni: sono fortemente focalizzate nel loro business, in cui eccellono, operano in settori tradizionali e mostrano tassi di crescita non clamorosi ma costanti. In altre parole rientrano perfettamente nell’ampia categoria delle pmi italiane.
Tutte queste considerazioni, oltre che imporre una riflessione, destano più di una preoccupazione sulla salute dei mercati finanziari. Le small cap italiane per tanti motivi non hanno mai esercitato grande fascino sulla finanza, in particolare su quella internazionale (incertezza normativa, elevata tassazione, poca confidenza con le logiche del mercato, nomea di scarsa trasparenza), mentre la finanza nostrana ha sempre preferito mettersi al riparo di qualche monopolio o di qualche azienda ben introdotta, ma i timori sempre più giustificati di una probabile fase di recessione ne hanno recentemente affossato le quotazioni. Anche la società più innovativa, condotta dall’imprenditore o dal manager più brillante, nel settore più dinamico non potrà evitare le conseguenze di un rallentamento economico e dell’aumento del costo del debito e i mercati azionari, che anticipano per natura, si sono comportati di conseguenza vendendo a piene mani data l’impossibilità di stimare con un minimo di sicurezza non solo i ricavi futuri ma anche un’eventuale situazione limite.
Ma di tutte queste riflessioni all’imprenditore importa molto poco, impegnato ogni giorno per ottenere i risultati e sopravvivere nell’attuale ambiente ipercompetitivo, snobba gli articoloni dei giornalisti, le opinioni degli economisti e le valutazioni degli analisti, e, ottimista per natura, si porta via le quote dell’azienda non più nelle sue mani sfruttando l’incertezza in cui si trovano i mercati.
Il mercato si lamenta ma alla fine consegna e, imbarazzato per la propria evidente colpevolezza, non alza neanche troppo la voce. Infine non gli resta che commentare che i migliori sono sempre quelli che se ne vanno.