Tra un’avvincente partita di Badminton e un’emozionante gara di carabina, anche il più distratto lettore della stampa economica italiana avrà notato nelle ultime settimane il non esiguo numero di articoli dedicati alla mai dimenticata Parmalat. I più smemorati saranno fermi alle famigerate vicende che hanno coinvolto la multinazionale di Collecchio nel 2003 con migliaia di piccoli risparmiatori delusi per un fallimento inaspettato e con le banche sedute sul banco degli imputati, accusate di essere state conniventi con la cattiva gestione dell’era Tanzi. Basta un piccolo sforzo di memoria per ricordare i crolli di borsa, le obbligazioni ridotte a carta straccia e i viaggi in Sud America dell’allora amministratore delegato in cerca di un cavaliere bianco che non si è mai trovato. Invece, grazie a una legge per una volta azzeccata, la realtà industriale nata a Parma, seppur con ridotte dimensioni e minori pretese, ha continuato ad esistere senza i debiti che l’avevano schiacciata e con ancora una presenza importante nel mercato italiano e in alcuni stati extraeuropei. La società negli ultimi anni non è però salita agli onori della cronaca per il fatturato (non trascurabile e pari a quasi 4 miliardi di euro nel 2007), né per una redditività esigua ma ancora positiva che tra le tante difficoltà è stata mantenuta dalla sua ricostituzione; a tenere ancora banco sono state le azioni che l’azienda ha intentato contro numerose banche italiane e straniere che hanno fruttato finora centinaia di milioni di euro di risarcimenti che rimangono intatti negli attivi del gruppo emiliano. Nel percorso fortemente voluto dall’attuale ad Bondi per ottenere la somma più alta possibile di indennizzi, si stanno ora per celebrare due grandi processi (contro Bank of America e soprattutto contro Citigroup), che si dovrebbero chiudere entro la fine dell’anno. Se tutto andrà come previsto la società alla fine del 2008 avrà in cassa più di un miliardo di euro (al momento capitalizza poco più di tre miliardi di euro); una situazione che la rende praticamente unica nel panorama europeo delle aziende industriali che, per perseguire la massima efficienza del capitale, sono in genere e correttamente indebitate. Se la vicenda potesse essere riassunta solo con quanto detto nelle righe precedenti tutta la storia si potrebbe far rientrare, seppure con caratteristiche particolarmente pronunciate, nell’ampia casistica dell’impresa italiana avversa al debito e osservante della politica dei piccoli passi; la parte più accattivante della questione è che Bondi è stato nominato con meno del 30% del capitale e che questo nocciolo (facciamo nocciolino) di azionisti è costituito da soggetti finanziari per niente interessati alle prospettive di medio-lungo termine del proprio investimento. Azionisti Parmalat con partecipazioni superiore al 2% a fine 2007 Riassumendo: oggi c’è un’impresa quotata senza debiti, con un miliardo di euro di cassa, scalabile e con un ad considerato da molti alla fine del proprio mandato. Pare secondo la stampa ben informata che il dossier sia sul tavolo di molte banche d’affari, dei migliori fondi di private equity e last but not least dei giganti francesi Danone e Lactalis tutti pronti a catturare la preda perfetta. Sarà pur vero che il business industriale non ha per niente brillato negli ultimi anni, che il rincaro delle materie prime si è fatto sentire anche dalle parti del culatello e che occorre probabilmente una decisa ristrutturazione aziendale, ma la preda è comunque irresistibile. Sempre secondo i bene informati a frenare finora la calata dei barbari sulla pianura padana è stata l’attesa per la definitiva conclusione delle partite legali ancora aperte con le banche per le quali l’ad Bondi ha dimostrato una particolare competenza e forse il pudore per non mettere le mani troppo presto con una smaccata logica da raider sul prodotto più eclatante della finanza malata e perversa, ma, come già detto, ad autunno i tempi saranno maturi. Tanto per rincarare la dose si può aggiungere che Parmalat nonostante tutto è ancora la principale industria alimentare italiana e che con tutta quella cassa e un buon management si potrebbe dare vita a una storia di rinascita industriale da manuale di economia. Abbiamo un governo stabile, abbiamo banche ben patrimonializzate e decise a fare sistema, abbiamo, si dice (di solito si parla solo dei peggiori), tanti bravi imprenditori: sarebbe così folle sperare di non perdere l’ennesimo pezzo della nostra industria in un settore in cui ci vantiamo di essere i migliori al mondo? Non occorre aspettare molto per vedere se il controllo di Parmalat finirà senza colpo ferire e tra il disinteresse generale in un ufficio della city, o arricchirà la presenza internazionale di qualche gigante francese. Noi crediamo che non sia mai troppo tardi per imparare dai propri errori e aspettiamo fiduciosi.