In attesa che finalmente venga approvato il piano di salvataggio made in Usa e che, possibilmente, cominci a manifestare gli effetti sperati, ieri i mercati hanno vissuto un’altra giornata da incubo.

Milano (il resto d’Europa non ha fatto meglio) ha chiuso con un calo del 4% accompagnato da illustri sospensioni al ribasso (su tutte Unicredit). L’ennesima giornata nera è stata questa volta causata dalle difficoltà di un istituto europeo, il gruppo bancario Fortis, salvato nello scorso week-end dai governi olandese, belga e lussemburghese che hanno acquistato il 49% delle rispettive filiali nazionali.

Le ragioni del fallimento evitato in extremis non sono diverse dalle solite che si leggono sui giornali da qualche mese. Il circolo vizioso è ormai collaudato: banche fragili patrimonialmente con attivi problematici cominciano a divenire oggetto di speculazioni e dei timori del mercato, perdono la fiducia degli investitori e delle altre banche finché non si trova nessuno disposto a investire (a meno di robuste reti di protezione) senza avere la certezza quasi assoluta di ciò che compra. Si sa peraltro che certezza e fiducia sono ormai chimere sui mercati finanziari.

Per Fortis si era provato a sollecitare l’interesse di due big del calibro di BNP e ING che manifestati timidi segnali di avvicinamento avevano poi rinunciato di fronte alla richiesta di dover garantire anche per le perdite future e non ancora emerse del gruppo bancario belga-olandese.

La giornata ha vissuto poi momenti di vera paura quando l’attenzione degli investitori italiani si è spostata sul caso Unicredit. Il gigante italiano si trova da mesi al centro di rumours su possibili aumenti di capitale, che sono stati incessantemente smentiti dall’ad Profumo. Il colosso del credito leader nell’est Europa è da sempre considerato la banca italiana più moderna e all’avanguardia nell’uso dei nuovi strumenti finanziari. La nomea, giustificata, unita agli sforzi fatti per espandersi in Italia e all’estero l’hanno resa fragile agli occhi del mercato.

Le notizie degli ultimissimi giorni sulla cessione di crediti, che in altri contesti avrebbero lasciato indifferente il mercato, hanno indotto gli investitori nervosi e impauriti a considerare la mossa come un tentativo goffo di procurarsi liquidità a tutti i costi. Stiamo assistendo alle profezie autoavverantesi: sono gli stessi timori e le preoccupazioni a condannare definitivamente una banca al fallimento. Anche la banca più solida e virtuosa non potrebbe resistere di fronte alla coda dei clienti che si mettono in fila per ritirare i risparmi.

È ormai sempre lo stesso attore che molti credevano finito e condannato all’oblio, accantonato dagli studi degli economisti e dagli articoli dei maître à penser, che sta recitando la parte dell’indiscusso protagonista. Lo Stato, le istituzioni pubbliche, la politica anche nei giorni scorsi sono dovuti intervenire di fronte alla totale impotenza del mercato. Due anni fa avremmo assistito a una guerra epocale tra banche e fondi per impossessarsi di un primario operatore di una zona d’Europa ricca e prosperosa. Oggi tre nazioni europee hanno trovato di fronte alle proprie proposte solo il vuoto pneumatico e alla fine sono dovute intervenire direttamente per spezzare con la garanzia statale la sfiducia del mercato.

Se mai c’erano stati dubbi i fatti cui stiamo assistendo dimostrano inequivocabilmente che oggi non c’è alcuna alternativa all’intervento pubblico. L’azione necessaria a risollevare le sorti dell’economia e del sistema finanziario è così ingente da avere effetti per anni su milioni di cittadini, molti dei quali saranno chiamati a pagare per errori e leggerezze di cui non hanno colpa.

Non bisogna poi farsi illusioni sulla possibilità di seconde e terze chance per risolvere la crisi. Se lo sforzo eccezionale che gli stati (primo fra tutti gli Stati Uniti) si apprestano a fare si rivelasse vano, ci ritroveremmo con un mercato in ginocchio e con istituzioni pubbliche dissanguate e a quel punto rimarrebbe poco da fare.

Per questo la decisione inattesa con cui la Camera dei rappresentanti Usa ha bocciato la proposta di salvataggio deve essere valutata serenamente. Si leggeranno i commenti infastiditi e pieni di spocchia sulla lentezza e i bizantinismi della politica americana che doveva firmare senza alcun tentennamento il piano di salvataggio. Invece le osservazioni fatte dai senatori Usa una settimana fa al segretario del Tesoro Paulson che chiedeva un’approvazione rapida e indolore, esprimono le giuste preoccupazioni di ogni persona di buon senso: «Non ci devono essere dubbi che il cambiamento stia avvenendo». O ancora: «I contribuenti americani devono avere assicurazioni che i soldi guadagnati con fatica saranno usati correttamente e responsabilmente», «ci deve essere una discussione su come cambiare le regole per evitare che una crisi di questo tipo non accada più».

È normale ed estremamente sano che il dibattito in America sul piano di salvataggio sia vivo e acceso, anche perché, data la situazione dei mercati, un giorno in più o in meno non fa probabilmente alcuna differenza. È giustificato un minimo di sospetto per una proposta che sembra fare piazza pulita delle responsabilità e che non sembra venire da una presa di coscienza di quanto è successo (senza considerare che Paulson fino all’altro ieri lavorava per la regina delle banche d’affari Goldman Sachs).

Invece sarebbe il caso che ci preoccupassimo dell’assenza di qualsiasi riflessione sul ruolo che lo Stato dovrà avere, al di fuori del ritornello “si faccia qualcosa subito”, da questa parte dell’Oceano. Gli americani potranno sbagliare, ma almeno non avranno la beffa finale di aver subito passivamente un’altra fregatura.