Chi pensava che dopo il rinnovo del patto Telco si sarebbero fermate polemiche e speculazioni su Telecom Italia si è dovuto ricredere davanti all’infinita quantità di notizie e polemiche che negli ultimi giorni hanno riguardato l’ex monopolista italiano.

Due settimane fa è stata la volta di Fossati, primo azionista privato con il 5%, che ha contestato il prezzo di vendita della controllata tedesca Hansenet, poi è arrivato il turno del dibattito sullo scorporo della rete e sugli investimenti nella banda larga che ormai tengono banco da 2 anni senza che si sia nemmeno intravista l’ombra di un qualche tipo di conclusione.

In entrambi i casi i termini del problema sono però passati in secondo piano e sono rimasti nascosti dal polverone di accuse, repliche e controrepliche che si sono susseguite senza sosta.

La cessione di Hansenet, in realtà attesa da più di un anno, ha riportato l’attenzione sull’ormai marginale presenza internazionale di Telecom, che negli ultimi anni si è via via spogliata delle controllate estere fino a rimanere con un’unica presenza significativa fuori dai confini in Brasile (l’altra partecipazione sudamericana, Telecom Argentina, è già stata messa in vendita e tra pochi mesi si conoscerà il compratore).

L’occasione per aprire le polemiche è stata data dal prezzo di vendita (900 milioni di euro) considerato troppo basso e frutto di un pessimo “timing”. In sostanza Telecom Italia nel caso specifico è accusata di avere avuto un atteggiamento rinunciatario e di non aver voluto provare a rafforzare la controllata tedesca con investimenti adeguati. Accuse che in teoria potrebbero avere qualche giustificazione, ma che si scontrano con una realtà che non lascia spazio a sogni e illusioni di grandezza.

Essere un operatore marginale in un mercato estremamente competitivo come quello tedesco, dominato da colossi di dimensioni ben maggiori, implica avere una posizione competitiva fragile destinata col passare dei mesi a diventare ancora più debole. In una situazione di questo tipo investire è probabilmente la peggiore delle idee dato che la potenza di fuoco dei concorrenti sarebbe in sostanza ineguagliabile.

Al di là del debole contesto economico aspettare a cedere significa con ogni probabilità presentarsi in futuro ai compratori in condizioni peggiori. Esempi fulgidi degli effetti di una certa ostinazione a non vendere si trovano anche in Italia e altrettanto evidenti sono state le conseguenze economiche di questa mancanza di lucidità.

Se la presenza internazionale è quindi destinata ad assottigliarsi allora è certo che le attenzioni sulla “questione delle questioni” in Italia è destinata a diventare sempre più d’attualità. Dal piano Rovati in poi chiunque a qualsiasi titolo abbia parlato di Telecom Italia ha riservato almeno un accenno allo scorporo e agli investimenti sulla rete.

Queste sono considerate le uniche azioni che potrebbero garantire un futuro solido e sostenibile nel medio-lungo periodo e in definitiva la panacea di tutti i mali della società (solo nell’ultimo trimestre Telecom ha perso 700 mila clienti nel mobile dopo averne persi il doppio nel trimestre precedente).

 

La “questione delle questioni” è però molto più intricata di quanto si potrebbe pensare. Perché un operatore privato, come è fino a prova contraria Telecom, decida di investire miliardi in una rete infrastrutturale, che sarebbe per motivi antitrust destinata a essere usata dai concorrenti, occorre la condizione imprescindibile della certezza regolamentare. Come avviene per la rete elettrica, o i tubi del gas serve che ci sia un quadro di remunerazione degli investimenti chiaro e prefissato. I privati e le imprese amano il rischio ma odiano l’incertezza.

 

Nessuna impresa può scegliere di investire in un settore di interesse pubblico così spiccato e così attentamente controllato dallo Stato senza che sia chiaro da subito qual è il contesto normativo. Ancora più chiare, dato che si tratterebbe di una infrastruttura non replicabile dai concorrenti e perciò non autonomamente gestibile da Telecom, devono essere le regole che fissano la remunerazione dell’investimento. Se così non fosse investire centinaia o miliardi di euro sarebbe solo una pazzia. Dato il livello “molto preliminare” del dibattito attuale a questo riguardo ben poco è destinato a cambiare nel breve.

 

Lo scorporo della rete avrebbe sicuramente vantaggi finanziari e certamente farebbe molto bene alle commissioni delle banche d’affari, ma i benefici industriali rimangono un punto di domanda. Se il maggior vantaggio competitivo di Telecom oggi nei confronti dei concorrenti è la rete cosa accadrebbe a una società “ex rete” diventata normale costretta a competere dall’oggi al domani con operatori low cost da una parte e colossi internazionali dall’altra (Vodafone)?

 

In tutto questo, come accade spesso, rimane in ombra il punto centrale. Dato che non si vuole una Telecom public company soggetta solo alle regole dei mercati, qual è il soggetto industriale che si deve fare carico del futuro della società? Certamente non può rispondere a questa domanda il soggetto attuale fatto da banche e assicurazioni e dal concorrente più agguerrito (Telefonica) le cui eventuali mire incorrerebbero probabilmente in opposizioni politiche fortissime.

 

Nei mesi passati è stata poi avanzata l’ipotesi affascinate di un intervento di Mediaset, ma è inutile specificare che contro tale ipotesi si solleverebbero, non senza qualche ragione, legioni di oppositori. L’unica certezza è che molte altre pagine di giornali verranno riempite da articoli con scenari improbabili e speculazioni di ogni genere, a cui peraltro gli investitori ormai hanno fatto il callo. Si spera, ovviamente, che la soluzione definitiva non sia trovata quando ormai è troppo tardi.