Le difficoltà del sistema produttivo emerse chiaramente qualche settimana fa con la crisi dell’auto avevano messo per un momento in secondo piano i seri problemi che affliggono il sistema bancario e finanziario. Se mai servivano ulteriori conferme le ultime giornate di borsa hanno mostrato dove risiedano le principali preoccupazioni del mercato.
Non è un problema di superiorità della finanza sull’economia reale (sempre ammesso che questa distinzione abbia senso) o di maggiori diritti e privilegi che si vogliono riconoscere alle banche, ma è la presa di coscienza che se non si cura l’origine del contagio difficilmente si potrà vedere la luce in fondo al tunnel della crisi economica; senza considerare che senza un sistema finanziario in condizioni di salute accettabili sarebbe quasi un’utopia sperare in una ripresa economica.
L’attuale sistema bancario europeo e americano è irriconoscibile rispetto a quello che si aveva davanti dodici mesi fa. Non solo i valori di borsa sono una frazione, in alcuni casi esigua, di quelli di febbraio 2008, ma alcune delle maggiori istituzioni finanziarie mondiali hanno cambiato proprietà o sono passate sotto il controllo statale, in aggiunta sono stati finalizzati aumenti di capitale in serie per puntellare i traballanti bilanci di molte banche.
Nonostante cambiamenti di tale portata e interventi massicci, i timori sulla tenuta del sistema e delle principali banche non sembrano essersi minimamente attenuati. Le paure degli investitori e le svalutazioni che hanno devastato i bilanci bancari sono da mesi strettamente legati alle ipotesi sulla quantità di asset tossici detenuti dalle banche. Il fallimento di Northern Rock risale alla fine del 2007 e da quello di Lehman Brothers, che ha dato il via ufficiale alla crisi finanziaria, sono passati ormai quasi sei mesi.
La conoscenza del mercato sull’ammontare di attivi “problematici” nei bilanci è però sostanzialmente immutata e rimane del tutto superficiale e approssimativa; ciò rappresenta indubbiamente uno degli ostacoli principali alla ricostituzione di un clima di fiducia sui mercati.
Eppure è questo un momento in cui servirebbe uno sforzo comunicativo senza precedenti per dare gli strumenti necessari per avere un quadro chiaro della situazione. Al di là dei problemi derivanti dai bassi volumi scambiati sui mercati che rendono le valutazioni più difficili e meno significative, oggi sapere quante obbligazioni statali piuttosto che di imprese stanno nei bilanci, o se una banca ha concesso mutui subprime o prime, o ancora qual è il valore dei derivati rischia di essere insufficiente. Avere un’obbligazione di stato irlandese, ucraina o tedesca non è indifferente, così come un mutuo “prime” spagnolo è diverso da uno francese e ancora avere crediti verso Enel è diverso che averli verso Fiat.
Dopo mesi di crisi finanziaria nessuno è ancora in grado di dire chi abbia che cosa e in che misura. In sostanza si deve fare un atto di fiducia o di fede nei confronti della scarne informazioni contenute nei bilanci. Nel 2007 bastava sapere quanta parte dei crediti era verso piccole o medie imprese e quanti titoli erano statali o meno e un’economia in salute rendeva tutti ragionevolmente certi di non avere di fronte grosse svalutazioni.
La dinamica oggi è esemplificata dal caso Unicredit (ma l’esempio potrebbe riferirsi a quasi ogni altra banca quotata). La banca italiana chiuderà l’anno con un utile di circa quattro miliardi di euro che nel contesto attuale sarebbe anche un risultato di tutto riguardo, ma il titolo negli ultimi mesi è sceso in modo pauroso e non sembra aver trovato un fondo.
La banca pubblica puntualmente bilanci e relazioni trimestrali, il management parla con la comunità finanziaria e sono già state messe in atto misure di rafforzamento patrimoniale da sei miliardi. Eppure le informazioni date in stretta e puntuale osservanza di regole e autorità non danno che un’idea molto vaga e imprecisa di che cosa si compongono i circa mille miliardi di euro di attivi (un trilione). È chiaro quindi che prevalgono le legittime preoccupazioni sul fatto che Unicredit sia esposta sui mercati dell’est Europa, con stati dai bilanci fragili, e in Germania il cui sistema bancario si sa essere incappato in ingenti investimenti “problematici”.
È altrettanto evidente che nessuno sia in grado di stimare di che dimensione debba essere un ipotetico intervento statale o quanti attivi finiranno nelle possibili bad bank. Si è insomma ben lontani dal porre le premesse per ricostruire un minimo clima di fiducia nel sistema finanziario o per stabilire se valga la pena salvare una banca piuttosto che un’altra.
Buttare soldi nel sistema senza prima preoccuparsi di fare chiarezza assoluta sulle criticità o senza cambiare le regole che hanno permesso questa follia finanziaria, rischia di essere nella migliore delle ipotesi un’operazione alla cieca e nella peggiore di determinare ben pochi effetti pratici.
Probabilmente si è già fuori tempo massimo e tutto questo doveva essere fatto mesi fa per avere qualche conseguenza degna di nota, ma è chiaro che ogni ipotetica svolta potrà difficilmente ignorare questa fase.