Come è ormai noto ai più, il tema al centro dei dibattiti sulla crisi finanziaria è la possibilità, sempre più concreta, che siano nazionalizzate le istituzioni finanziarie più colpite dalla crisi, come rimedio estremo per spezzare il circolo vizioso che sta trascinando mercati ed economia reale verso scenari ritenuti impensabili fino a qualche mese fa.
I nomi saliti agli onori della cronaca con più insistenza sono quelli di Citigroup, Royal Bank of Scotland e Hypo re oltre all’assicurazione americana Aig. Sono rispettivamente la maggiore banca americana e mondiale, due delle più grandi banche europee (inglese e tedesca) e infine la più grande assicurazione del pianeta. La più chiacchierata per quel che riguarda il sistema italiano rimane Unicredit il cui titolo è da mesi immune a qualsiasi notizia positiva.
Ricapitolando in Europa e in Usa si è cercato prima di finalizzare rafforzamenti patrimoniali con capitali privati, poi sono stati coinvolti i fondi sovrani, infine è stato il turno dello stato con ricapitalizzazioni e prestiti ad hoc.
Nonostante questo si è al punto di partenza e non si è riusciti a rimettere in sesto il sistema. Emblematico è il caso di Unicredit trascinata a minimi storici sostanzialmente su timori di default di alcuni importanti Stati dell’Est Europa.
La situazione può essere riassunta in modo brutale in questo modo: nessuno sa quanti titoli tossici ci sono nei bilanci; moltissimi non si fidano assolutamente della solidità della maggior parte delle banche; le banche stanno riducendo drammaticamente i finanziamenti a famiglie e imprese.
Su quest’ultimo punto gli ultimi dati Abi evidenziano un sistema bancario in cui crescono i depositi della clientela e le emissioni obbligazionarie, mentre la crescita dei crediti è passata dal 10% all’anno di un anno fa allo 0% attuale. Qualcuno intenzionato a comprare macchinari o a investire ci sarebbe anche, ma non si trova nessuno disposto a concedere credito. E non potrebbe essere diversamente perché con le nubi nerissime che si vedono all’orizzonte, i timori di prestare a qualcuno che potrebbe con molta probabilità rivelarsi insolvente diventano insuperabili.
Rimanendo in Italia, dopo qualche mese di oblio di giornali e televisioni, la crisi e le foto di repertorio degli operatori attoniti davanti a un grafico che sembra una linea verticale hanno ricominciato a occupare le prime pagine e i servizi di apertura dei Tg e già qualcuno ha ricominciato a chiedersi se sia sicuro tenere i risparmi nella seconda banca italiana per numero di sportelli.
È questo il desolante orizzonte in cui è nato il dibattito sulla statalizzazione delle banche, che dovrebbe consentire, per chi l’ha proposto, sia, finalmente, una definitiva chiarezza sulla parte di attivo ormai non più esigibile o priva di valore (questa categoria è in realtà molto variabile e fluida dato che col passare dei mesi sono emersi dubbi su asset ritenuti sicuri fino a poco tempo fa), sia un’iniezione di fiducia decisiva tra gli investitori. Infine si conta sul fatto che una banca statale possa essere di manica più larga nella concessione del credito il cui contenimento sta dando il colpo finale a famiglie e imprese.
Ipotizziamo ora che tutti i peggiori timori avanzati su qualche nota banca italiana siano confermati, che il valore delle azioni si azzeri dopo svalutazioni record e che alla fine il Tesoro si veda costretto a salire al 100% della banca in questione. In questo caso emergerebbe qualche conseguenza che forse è rimasta fuori dal dibattito attuale. Tutti i cittadini si farebbero in sostanza carico della parte malata degli attivi che graverebbe da subito sul debito pubblico.
Si correrebbe il rischio di offrire alla banca statale uno straordinario vantaggio competitivo in un contesto di incertezza sulla solidità delle banche rimaste private, che a quel punto si potrebbero trovare completamente spiazzate. Infine niente garantirebbe una gestione efficiente e non burocratica-politica e rimarrebbe il problema di possibili distorsioni derivanti da un credito troppo facile.
In Italia per decenni si è convissuto con un sistema bancario con una forte presenza statale e la “bad bank” con cui si è risolto il caso Banco di Napoli è studiato sui libri all’università; nulla impedisce di pensare che la straordinarietà della situazione che stiamo vivendo richieda di intraprendere soluzioni estreme. È però una via eccezionalmente pericolosa che non lascerebbe ulteriori rimedi e che presenta rischi elevati soprattutto se fosse intrapresa in uno stato di panico e senza avere ben calcolato tutte le conseguenze possibili.