In attesa di maggiori lumi sui destini prossimi venturi dell’economia, che purtroppo rimarranno oggetto di dibattito per molti mesi, oggi verranno definitivamente sciolte le riserve sul destino dell’operazione Fiat-Chrysler sui cui già ora si possono esprimere alcuni giudizi iniziali.
L’operazione avviene in un settore duramente colpito dalla crisi che ne ha messo a nudo tutte le debolezze e contraddizioni. Nel periodo più nero della crisi finanziaria le risposte alle difficoltà del comparto hanno evitato qualsiasi dibattito sulla “sostenibilità” dell’industria auto così come si era affacciata alla crisi in favore di immediate politiche di aiuto e di incentivi statali (più o meno aggressivi a seconda delle disponibilità finanziarie che i singoli stati avevano).
In questo quadro l’operazione Fiat-Chrysler rappresenta un notevole elemento di rottura. Gli aiuti statali Usa in favore del costruttore di casa sono infatti indissolubilmente legati a un’operazione industriale di ampio respiro che potrebbe causare una piccola ma significativa rivoluzione in un settore che sembra voler evitare una riflessione seria sul proprio destino.
Come noto Fiat, in cambio della propria tecnologia (in particolare motori a bassa cilindrata), acquisirà una partecipazione del 20% nel terzo produttore auto Usa, con la possibilità di salire nel medio periodo almeno al 35%. A oggi è stato ottenuto il via libera dell’amministrazione Usa e dei sindacati che hanno fatto decisive concessioni in particolare sul debito pensionistico di Chrysler. Le ultimissime notizie danno poi per ottenuto l’assenso dei creditori della stessa Chrysler che convertiranno parte del proprio debito in azioni e che faranno in modo di evitarne la bancarotta.
Diciamo subito che l’operazione è una scommessa ancora tutta da giocare perché il lavoro necessario per concretizzare i potenziali benefici è enorme e perché lo scenario economico è ancora estremamente sfidante. Fatta questa premessa si deve riconoscere che, data la situazione, le mosse di Fiat sono quanto di meglio si potesse desiderare per uscire dalla scomodissima posizione competitiva in cui si era venuta a trovare e che Marchionne si è creato questa opportunità a costo zero, senza alcun esborso di cassa.
Il quadro all’interno del quale vanno collocate le notizie degli ultimi mesi è lo stesso indicato da Marchionne qualche mese fa quando dichiarava che era inevitabile un processo di consolidamento nel settore e che per competere efficacemente occorreva raggiungere la soglia di sei milioni di auto prodotte l’anno. Fiat (attualmente a 2-2,5 milioni) con l’accordo si avvicinerebbe di molto a questa soglia unendo le forze con un produttore (altri due milioni di veicoli prodotti) complementare per presenza geografica e mix di prodotto.
La cronaca dello sbarco americano di Fiat non deve però far perdere di vista la strategia di lungo periodo del gruppo che, seppur mai esplicitamente dichiarata, è il vero filo conduttore di ciò che si è letto su Fiat dall’arrivo di Marchionne in poi. Interrogato sulla possibilità di cedere Cnh (macchine agricole) e Iveco per poter finanziare l’espansione dell’auto l’ad rispondeva di non aver intenzione di fare cose stupide con la vendita di due asset preziosi per il gruppo. L’obiettivo finale è infatti quello di rendere meno forti i legami tra il gruppo Fiat e l’auto, settore quanto mai competitivo e ricco di insidie.
Alla fine del percorso che la società torinese si appresta a percorrere c’è la creazione di un gruppo auto doppio o triplo per dimensioni rispetto all’originario in cui Fiat abbia però una quota di molto inferiore al 100% attuale. In questa ottica le proposte fatte a Opel paiono qualcosa di molto diverso rispetto a un mero tentativo di forzare la mano agli americani e anzi sembrano perfettamente funzionali allo scopo finale oltre che complementari all’operazione americana.
Le resistenze tedesche dettate dalla strenua difesa di ogni singolo posto di lavoro e dalla preoccupazione di dover subire le conseguenze delle efficienze che verrebbero richieste potrebbero infine cedere. Non solo la proposta concorrente di Magna ha molto meno senso industriale, ma Fiat può mettere sul piatto della bilancia una quota significativa del nuovo gruppo così come ha probabilmente in mente di fare dall’altra parte dell’oceano.
Se questo è lo scenario di tutto si potrà accusare Marchionne tranne che di aver tentato una soluzione rinunciataria e di basso profilo. Mantenere in Italia la testa (o una partecipazione pesante) di un gruppo sufficientemente grande e ben posizionato sarebbe un successo enorme per un Paese che ha ormai ben pochi grandi gruppi industriali.