Il G8 che si apre oggi all’Aquila sarà inevitabilmente determinato dalla crisi e dalle sue innumerevoli conseguenze. I temi più caldi sono ormai noti e si va dagli squilibri sui mercati valutari, alle nuove regole che la finanza si dovrà dare fino agli interventi che ancora si possono mettere in campo per arginare gli effetti della crisi sull’economia reale.

Ormai si fa sempre più chiara la portata della sfida che si dovrà affrontare nei prossimi mesi; dal mondo delle imprese cominciano ad arrivare le prime indicazioni sullo scenario che ci attende e da più settori industriali emergono chiare indicazioni di una prolungata fase di debolezza economica. Col passare delle settimane sono infatti le stesse imprese, nei piani industriali e nelle dichiarazioni del top management, a rendere evidenti le proprie aspettative: giusto ieri il presidente di Nissan affermava che il numero di auto vendute nel 2008 non si vedrà nuovamente prima del 2013.

In tale contesto è lecito attendersi che l’incontro dell’Aquila, dal punto di vista economico, si possa concentrare su alcune questioni che sembrano più urgenti e di più immediata risoluzione. La prima notizia dovrebbe essere che non si discuterà del possibile rimpiazzo o affiancamento del dollaro con altre valute nelle relazioni commerciali e finanziarie tra i diversi Stati. Questo nonostante nelle ultime settimane si siano intensificati rumours, fughe di notizie e speculazioni sui timori che molti Paesi detentori di debito made in Usa cominciano ad avere dopo avere assistito allo spettacolare incremento del debito americano e alla contemporanea debolezza del dollaro.

Qualsiasi cambiamento dello status quo avrebbe conseguenze enormi ed è quindi presumibile che eventuali modifiche siano introdotte solo di fronte a un accordo definitivo, che al momento non sembra sussistere minimamente, e con una certa gradualità. Il tema rimarrà di attualità per i prossimi mesi, sperando che non venga esasperato da ulteriori ritrovamenti “casuali” di decine di miliardi di titoli di debito di Stato americani in transito tra Italia e Svizzera.

Allo stesso modo sembra bassa la volontà politica di affrontare sistematicamente l’introduzione delle tanto chiacchierate nuove regole per il sistema finanziario. A parte le pressioni e l’attività di indirizzo che i diversi Governi con varia intensità hanno esercitato negli ultimi mesi sul sistema finanziario, non si registra alcuna revisione profonda delle regole e dei meccanismi che hanno governato il sistema negli ultimi anni. Anche le riflessioni e i dibattiti sono a uno stadio assolutamente preliminare e più che una seria presa di coscienza su quanto accaduto è stata la paura dei rischi corsi e l’estrema debolezza a limitare negli ultimi mesi l’azione di banche e istituzioni finanziarie. È quindi poco ragionevole sperare che da queste basi nei prossimi giorni possano nascere iniziative di qualche efficacia pratica.

Ciò che sembra invece più a portata di mano è un’azione condivisa sui paradisi fiscali. Le ragioni sono chiare: bilanci statali alla ricerca di nuove entrate fiscali non possono tollerare l’esistenza, dietro l’angolo o dall’altra parte dell’oceano, di luoghi in cui ingenti guadagni e masse di ricchezza finanziaria si nascondono dai pretenziosi sistemi fiscali occidentali. Il fatto è ancora più intollerabile e politicamente indifendibile quando appare chiaro che l’estrema finanziarizzazione dell’economia è la causa principale della crisi.

È il caso ora di mettere in fila una serie di fatti. Meno di un anno fa la Germania con modi piuttosto inusuali (pare che i servizi segreti abbiano corrotto un funzionario) faceva uscire una lista di titolari, tedeschi e non, di conti in Lichtenstein; era una sorta di avvertimento e minaccia, nemmeno troppo velata, contro il vicino e scomodo paradiso fiscale. Poi era il turno degli Usa le cui pressioni nei confronti del colosso svizzero UBS si sono fatte via via più pesanti fino allo scontro aperto di questi giorni. Gli Usa vogliono nomi e cognomi di tutti i titolari statunitensi dei conti in UBS che resiste alla richiesta strenuamente. Inghilterra e Italia hanno cominciato invece a mettere in cantiere ipotesi di scudi fiscali per incentivare il rientro di capitali usciti illegalmente dai rispettivi confini (verso lidi fiscalmente ben più generosi e molto meno trasparenti).

Il momento è d’oro, perché mai prima d’ora certe istituzioni e certi Stati sono deboli economicamente e politicamente oltre che osteggiati dall’opinione pubblica. Il nostro ministro dell’economia va ripetendo che provvedimenti in questo senso saranno concordati con gli altri Stati europei e con gli altri “grandi”. In questo caso è lecito attendersi novità e prese di posizione perché dove non hanno potuto Stati in salute contro le lobby finanziarie, potranno forse ora le ragioni dei bilanci statali esangui contro un’opposizione fiaccata e screditata.