Ieri qualcuno potrebbe avere aperto i quotidiani in qualche città resa deserta dalle ferie agostane o sotto l’ombrellone e aver scoperto l’incredibile notizia che la crisi non è finita ed è anzi ancora viva e vegeta. Dopo più o meno cinque mesi filati, sono state persino rispolverate le foto degli investitori attoniti davanti agli schermi mentre i titoli proclamavano con toni soft il lunedì nero delle borse.

Martedì il clima si era già rasserenato: lo zew (l’indice che misura le aspettative dell’economia in Germania) è stato superiore alle attese e il capo economista del Fondo monetario internazionale ha dichiarato che la ripresa dell’economia globale è iniziata. A questo punto un minimo di disorientamento diventa lecito e forse è giunto il momento di fare un breve punto della situazione.

Partendo dalla fine, i dati deludenti sulla fiducia dei consumatori americani comunicati venerdì hanno dato il sospiratissimo pretesto ai mercati per fermare un rialzo che ormai risulta ai più molto azzardato se non addirittura privo di senso. In questi cinque mesi di rialzo i pessimisti hanno dovuto fare buon viso a cattivo gioco, perché chi si fosse messo short a giugno avrebbe avuto torto marcio e ora sarebbe senza lavoro o assediato da clienti infuriati, anche perché quando si scommette sui ribassi e i titoli rimbalzano le chiamate dei prime broker diventano pressanti in un tempo insospettabilmente breve.

Il calo della fiducia di cui sopra è il risultato di un mercato del lavoro che non vede quasi segnali di ripresa e del calo dei redditi che evidenziano l’estrema fragilità dell’economia americana. Per molti mesi l’“economia reale” è rimasta immune dalle difficoltà di banche e società finanziarie schiacciate da una leva tale e da titoli così rischiosi che potevano reggere solo di fronte a crescite robuste e ininterrotte. Ancora a settembre 2008 molte imprese si ritenevano poco coinvolte dalla crisi e si sono trovate impreparate alle conseguenze che le difficoltà del sistema finanziario hanno determinato.

Il fallimento di Lehman ha infatti trascinato con sé buona parte di banche e assicurazioni che hanno richiesto una quantità di ricapitalizzazioni e statalizzazioni senza precedenti. Il crollo degli investimenti e dei consumi fatti a debito e non più sostenibili ha fatto il resto e la crisi è ormai sotto gli occhi di tutti. Quello che è successo sui mercati negli ultimi mesi è però la conseguenza diretta o indiretta degli sforzi statali per salvare le banche e per rilanciare l’economia. Il mercato ha smesso di pensare all’apocalisse finanziaria come a uno degli scenari possibili e i primi timidi segnali di ripresa hanno contrastato così tanto con i cali paurosi dell’autunno da indurre tutti ad abbandonare il pessimismo totale di inizio anno.

Le banche europee da inizio marzo hanno guadagnato il 140%, le assicurazioni l’83%, il settore auto “solo” il 48%, giusto per citare i più colpiti e sussidiati. Un certo recupero era nell’ordine delle cose perché a inizio anno si scontava il tracollo completo dell’economia, ma l’euforia delle ultime settimane sembra aver dimenticato un fattore non secondario. Salvataggi bancari e incentivi vari hanno avuto un costo che non si può evitare di pagare. Questo costo ha preso la forma dei debiti statali che sono esplosi a ritmi che non si vedevano dalla seconda guerra mondiale.

Diciamo pure che gli scenari più tetri hanno smesso di essere un’opzione, ma il conto è ancora tutto lì da pagare e ciò si tradurrà in anni di crescita anemica, in cui avverrà una selezione feroce tra imprese industriali e finanziarie competitive e non. Finita la sbornia iniziata a inizio marzo possiamo attenderci che i mercati saranno molto più selettivi nei rialzi e nei ribassi e si dividerà nettamente tra aziende ben gestite e aziende in difficoltà.

A proposito di debiti pubblici il modo migliore, ampiamente collaudato e semplice, che gli Stati hanno per scaricare il debito sui contribuenti è far crescere l’inflazione che potrebbe trovare terreno fertile nella montagna di liquidità immessa sui mercati. Una prospettiva per il momento del tutto ipotetica ma a cui qualche investitore comincia già a pensare insieme alle relative contro-misure. Dopo l’inevitabile scoppio della bolla, il tanto bistrattato (e guarda caso antideflattivo) settore immobiliare ha avuto nelle ultimissime settimane un andamento che sarebbe interessante guardare da vicino (vedere per credere dalle parti di British Land con i suoi 12miliardi e 300milioni di sterline di immobili in gestione).

Sempre a proposito di debiti pubblici un paper del Fondo monetario internazionale del 30 luglio  dettava in modo piuttosto esplicito la linea da seguire: evitare che sorgano dubbi sulla solidità dei debiti pubblici è primario per consentire un qualche tipo di ripresa. Primo punto alla voce ricette? Ridurre la spesa per pensioni e salute. Ogni riferimento a dichiarazioni recenti dei ministeri nostrani è puramente casuale. Così come è puramente casuale che le dichiarazioni del capo economista del FMI che annunciano l’inizio della ripresa siano accompagnate dalla previsione che la crisi avrà forti conseguenze su domanda e occupazione per molti anni.

Evidentemente affermare che il peggio è passato è molto diverso che sostenere che la normalità sia dietro l’angolo o che sia facile e banale risalire la china.