Le parole con cui Marchionne ha sconvolto in mondo politico-finanziario italiano (“Senza l’Italia faremmo di più”) hanno suscitato un tale volume di commenti, osservazioni e polemiche da togliere anche ai più ottimisti qualsiasi velleità di poter aggiungere qualcosa di minimamente nuovo e interessante al dibattito. L’unica cosa che rimane è spostare il punto di osservazione su Fiat e dintorni, cambiando completamente visuale. Marchionne ha detto quello che ha detto, una verità piuttosto lapalissiana, proprio perché ha il punto di osservazione giusto su Fiat, sulle conclusioni poi si può discutere; ma il punto di osservazione giusto non è in Italia.



Dovrebbe essere dato per scontato, invece, incredibilmente, il dibattito degli ultimi giorni si è concentrato sulle annosissime e noiosissime vicende passate degli aiuti statali a Fiat o perfino del convertendo. Argomenti interessantissimi per i cultori della storia economica italiana, ma veramente inutili per affrontare il problema di oggi e di domani di Fiat: come sopravvivere in un mercato globale, contro una concorrenza globale, continuando ad avere le fabbriche in Italia.



Se questo è il punto ci piacerebbe sapere che tipo di contributo porta alla discussione rinvangare i contributi, giusti o sbagliati, che lo Stato italiano ha dato a Fiat: bisognerebbe per questo nazionalizzarla? Meglio un’azienda inefficiente e perdente sul mercato che continua a chiedere aiuti alle prime avvisaglie di inversione del ciclo industriale? Bisogna sostenere contro ogni evidenza che in Italia gli stabilimenti di Fiat sono perfetti? Oppure che nel mondo i consumatori compreranno auto Fiat più costose della media perché gli italiani sono simpatici?

In tutto questo siamo abbastanza certi che molti non abbiano notato i risultati con cui Ford ha strabiliato i mercati finanziari qualche giorno fa. Nel terzo trimestre la società ha realizzato un miliardo e 700 milioni di dollari di utile facendo segnare il miglior trimestre nei 107 anni della sua storia. A “margine” di questi risultati il gruppo ha annunciato 500 milioni di dollari di investimenti in Cina, 350 milioni con Mazda in Thalandia e si è impegnata a restituire 2 miliardi di debiti.



Il numero di nuovi modelli, restyling, nuovi motori che verranno lanciati è decisamente lungo e chi non si fida lo può trovare alla slide 5 della presentazione dei risultati (interessante anche la slide 10 sul non contributo dell’Europa all’utile pre-tasse). A proposito, il gruppo aveva promesso al sindacato nel 2007 che avrebbe assunto, tra richiami e nuove assunzioni, negli Stati Uniti 1560 lavoratori: ne ha già richiamati 1340 nelle fabbriche americane (tra cui Sharonville in Ohio, Waynee Ypsilanti nel Michigan) e altri 635 verranno richiamati entro il 2012.

Ford ha iniziato almeno tre anni prima di General Motors e Chrysler a ristrutturare la propria presenza negli Usa, riconoscendo per prima un drammatico eccesso di capacità produttiva rispetto alla domanda normale e non più drogata del mercato; gli accordi raggiunti con i lavoratori hanno fatto da guida per quelli finalizzati poi, in situazioni molto più disperate, da GM e Chrysler sotto procedura di chapter 11. Sarà un caso, ma Ford è l’unica dei tre colossi americani dell’auto a non avere rischiato di finire nel baratro e a non aver dovuto ricorrere al chapter 11.

 

Se qualcuno oggi volesse scommettere un euro sulla competitività nel medio-lungo termine e sulla capacità di tenuta di fronte a una crisi tra Fiat (senza il gioiello guarda caso americano Chrysler) e Ford probabilmente sceglierebbe la seconda; probabilmente perché magari l’euro è finito in mano alla persona di prima che comprerà sempre una Fiat a qualsiasi prezzo perché pensa che gli italiani siano più simpatici.

 

Non si tratta tanto di emulare acriticamente e stupidamente i passi di Ford, né magari è giusto e accettabile quello che i lavoratori americani hanno accettato per salvare l’azienda, come la riduzione della paga oraria da 26 a 14 dollari (ovviamente se l’economia si mette bene si potrà risalire). Spulciando tra la stampa locale americana o nelle interviste rilasciate dagli operai si trovano dichiarazioni che da noi sembrano arrivare direttamente da Marte sul fatto che i sacrifici fatti (e che sacrifici!) hanno raggiunto lo scopo e hanno salvato l’azienda e che ora GM, Ford e Chrysler stanno tornando ad assumere. Sembrano arrivare da Marte sicuramente per chi ha trovato le barricate quando ha chiesto solo garanzie per limitare l’assenteismo e avere flessibilità sugli straordinari a Pomigliano come condizione per investire 700 milioni togliendo il lavoro ai polacchi.

 

Ribadiamo a scanso di equivoci che non si tratta di ripercorrere passo dopo passo la strada intrapresa da Ford, né di tagliare e ristrutturare nel discutibile stile americano. La differenza di atteggiamento a tutti i livelli sembra enorme e la forza con cui ci si ostina a non voler guardare in faccia la realtà sta diventando preoccupante; pensare che dopo la crisi economica peggiore dal ‘29, con le debolezze competitive che esistono e con l’eccesso di capacità attuale si possa assicurare a Fiat un futuro solido senza sacrifici è pura utopia; tralasciamo ogni considerazione sulla concorrenza dell’Est Europa e della Cina.

 

Se il dibattito partisse da questa considerazione di partenza e vertesse sui modi migliori per rendere Fiat più competitiva si sarebbe già fatto almeno metà del lavoro. D’altronde vale la dichiarazione del vicepresidente esecutivo di Ford, Fields: “The name of the game is competitiveness” (il nome del gioco è competitività), seguita dal ringraziamento ai sindacati per aver trovato nuovi modi di lavorare insieme su accordi di lavoro che permettono a Ford di riportare il lavoro nelle fabbriche americane. Giusto per rendere l’idea di quello di cui stiamo parlando.

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