Sulla vicenda Telecom Italia-Telefonica è già stato detto quasi tutto; tra le pochissime cose passate in secondo piano rientra di diritto il punto di vista spagnolo e di Telefonica sulla fusione con l’ex monopolista italiano. Per capire in estrema sintesi cosa sta pensando ora un qualsiasi azionista del gigante iberico delle telecomunicazioni basta dare un’occhiata al grafico del titolo nelle ultime settimane. Non occorre essere un raider di borsa per capire che la fusione con Telecom Italia è il vero incubo dell’azionista Telefonica.

Se per questo andamento qualcuno avanzasse l’accusa della solita finanza malata incapace di cogliere il respiro industriale e le sinergie dell’operazione, si troverebbe davanti, in questo caso, delle obiezioni formidabili. È poi veramente curioso come da questa parte del Mediterraneo ci siano non pochi commentatori che sostengono l’idea di una svendita, invocando ormai impossibili sogni di gloria per la società italiana.

L’azionista italiano scambierebbe una partecipazione in una società molto indebitata che opera nel peggiore mercato europeo delle telecom con quella in una società con molto meno debito (in proporzione si intende), con una presenza internazionale importante e guidata da un manager di primo livello.

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Che Telecom sia indebitata più della media europea non è un argomento su cui valga la pena spendere troppe parole; invece qualche osservazione può essere fatta sul pessimo, per chi ci opera, mercato italiano. Le società di telecomunicazioni in Europa hanno mostrato e con ogni probabilità mostreranno nei prossimi trimestri tassi di crescita anemici e continueranno a essere limitate da una fortissima pressione regolamentare che negli ultimi anni ha attentamente impedito rialzi dei costi per gli utenti.

 

Inoltre le imprese del settore sono condannate a investire molto in marketing e infrastruttura per non perdere quote di mercato. In questo conteso, già di per sé poco brillante, il mercato italiano spicca per un livello di competizione estremo e per un tasso di saturazione che non ha eguali tra i Paesi sviluppati (da noi ci sono più sim che persone). In aggiunta a questo tetro scenario c’è un “ambiente regolamentare” totalmente instabile e imprevedibile.

 

Ogni soggetto estero intenzionato a investire in Italia si scontra con un’incertezza regolamentare che disincentiva gli investimenti. Nel settore Telecom questa caratteristica è esasperata e l’enorme dibattito che si è scatenato sul destino della rete dal progetto “Rovati” in poi segnala senza alcun dubbio che il tema è sensibilissimo per il sistema Paese e per la politica.

 

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Telefonica con la fusione con Telecom Italia non solo si troverebbe in un mercato che non promette grosse soddisfazioni ma incontrerebbe enormi difficoltà nell’acquisizione del gioiello Tim Brasil. Dato che Tim Brasil e la controllata brasiliana di Telefonica sono rispettivamente il secondo e il primo operatore è assolutamente preventivabile una decisa e insuperabile opposizione dell’antitrust brasiliana.

 

Oltre alle preoccupazioni meno nobili del “sistema Italia” sul rischio che la rete finisca al di fuori di qualsiasi controllo italiano, c’è un’oggettiva e sana preoccupazione sugli investimenti nella rete. Nella situazione attuale il sistema ha molte leve per incentivare gli investimenti sulla rete perché la società che ne controlla la proprietà è soggetta alla leggi e alle regole delle autorità italiane.

 

Nessuno manager si mette contro il Governo del principale mercato in cui opera. Telefonica potrebbe non avere nessun interesse a investire in un Paese che tra i mercati in cui è presente è per certo quello con i ritorni meno interessanti e sicuramente sarebbe più libera e indipendente nei confronti delle pressioni italiane.

 

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Ovviamente l’incertezza regolamentare non colpisce solo l’investitore estero. Ormai sembra assodata una valutazione minima per la rete di dieci miliardi di euro e nessuno si scandalizzerebbe per una valutazione a metà tra i dieci e i quindici miliardi. Nessun imprenditore privato con un minimo di buon senso può fare un’acquisizione di questa portata senza avere garanzie assolute sulle regole con cui verrà remunerato l’esistente e i successivi investimenti.

 

Da questo punto di vista l’Italia è uno dei peggiori Paesi in cui essere. Per questo si vocifera con sempre più insistenza di un intervento pubblico in un eventuale spin off della rete. Lo Stato attraverso un suo braccio (per esempio la cassa depositi e prestiti) si farebbe promotore o principale sponsor di quell’investimento (la rete) che nessun privato da solo potrebbe mai fare. O Telefonica si fonde con tutta Telecom Italia e lo Stato Italiano si garantisce un controllo sulla rete oppure si elimina il problema proponendo agli spagnoli di fondersi con quello che resta di Telecom Italia dopo lo spin-off della rete.

 

Siccome, sfortunatamente per gli spagnoli, le banche italiane hanno intenzione di spuntare le migliori condizioni possibili, in entrambi i casi si tratterebbe di un pessimo affare per gli azionisti di Telefonica e un buon affare per quelli di Telecom. D’altra parte le operazioni di finanza straordinaria non creano di per sé valore e alla fine c’è sempre qualcuno che nel trasferimento di valore rimane col cerino in mano e paga il conto per tutti. Ci sono solo due indiziati al riguardo: gli azionisti di minoranza di Telefonica e quelli di Telecom Italia. Se è vero anche solo la metà di quello che si legge quelli di Telefonica possono già cominciare a tremare.