I risultati delle elezioni sono noti già da due giorni e i più autorevoli commentatori hanno già espresso le proprie analisi sulle conseguenze politiche di questa tornata elettorale; nei prossimi giorni e settimane ci saranno molte altre occasioni di commento, perché i risultati hanno disatteso molto aspettative e come sempre in questi casi alcuni equilibri si romperanno aprendo o chiudendo nuove possibilità e scenari.

Tra i molti argomenti sul tavolo vale la pena di sottolinearne uno di cui non si parlerà per il semplice motivo che non è mai accaduto. La prima conseguenza “economica e finanziaria” di queste elezioni è che il Governo Berlusconi esce rafforzato o quantomeno non indebolito da questo importante test, e con lui esce altrettanto rafforzato il ministro dell’economia Tremonti.

Nessuno quindi discuterà dei possibili riflessi che un significativo indebolimento del Governo avrebbe potuto avere. La questione non è banale perché basta dare un’occhiata distratta ai giornali per capire che la credibilità e la “affidabilità” di un Paese hanno impatti sensibilissimi su variabili economiche decisive, soprattutto in questo contesto economico. Cosa possa succedere se i mercati dovessero cominciare a nutrire dubbi sul “sistema Italia” e soprattutto sulla tenuta del suo debito è un argomento che preferiremmo non fosse di stretta attualità.

L’Italia è entrata nella crisi col rapporto debito/Pil più alto d’Europa; questa situazione ci mette sempre nella lista dei cattivi e degli osservati speciali. Da molti mesi gli unici brividi che hanno attraversato i mercati finanziari sono arrivati da timori più o meno fondati di default di debiti sovrani, che hanno già colpito in modo evidentissimo lo stato europeo più fragile e in un certo senso più colpevole come la Grecia.

Non passa settimana che Italia, Portogallo, Spagna, Irlanda e da qualche tempo Regno Unito non siano oggetto di qualche speculazione. Solo che gli effetti di un incremento del costo del debito sono molto più rilevanti per un’economia (come la nostra) che parte già da livelli elevati di deficit. In Italia avremo un debito/Pil al 120% nel 2010 contro una media europea dell’84% (Francia e Germania rispettivamente all’83% e 76.5%).

Per capire di cosa si sta parlando potremmo prendere in prestito l’analisi di uno che di certo non brilla per ottimismo come Roubini. Per l’autorevole professore della New York University i mercati guardano il debito sovrano italiano con più ottimismo rispetto agli altri Paesi periferici dell’Unione di quanto non accadesse prima della crisi. In altre parole abbiamo perso posizioni nella lista dei cattivi. I motivi? Le riforme del sistema pensionistico già attuate, gli effetti dello scudo nel 2010 e infine la decisione del governo italiano di limitare al massimo le politiche di stimolo (deficit al 5,9% nel 2010 contro una media europea del 7%).

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Ovviamente dall’inizio della crisi chi ha guardato con attenzione allo stato di salute delle nostre finanze ha dovuto constatare il livello di risparmio più alto della media europea e il fatto che il debito pubblico sia ancora in larga parte in mano italiana. Rimane però fatto che i mercati si siano sentiti rassicurati dalle scelte prudenti fatte finora e vale sempre la tesi che i mercati amano il rischio, ma odiano l’incertezza e che, nell’indecisione, di fronte a un possibile cambio di strategia la scelta ricade quasi sempre sulla vendita (in questo caso dei titoli di debito italiano).

 

Si può discutere sulla decisione di contenere il più possibile il debito ed è certo che le politiche di stimolo adottate dagli altri Paesi abbiano avuto effetti tangibili sulla crescita e sul Pil. Si può invece questionare molto poco su una situazione di partenza che ci avrebbe permesso comunque meno dei nostri “concorrenti europei”, per non dire che quando si è nella lista dei cattivi le scelte devono essere sempre molto ponderate.

 

Per quanto non preoccupante la situazione italiana è comunque più fragile delle altre principali economie europee e anche deboli segni di cedimento potrebbero suonare sinistri per gli speculatori di professione con conseguenze imprevedibili. Insomma i rischi di un cambio di strategia di politica economica potrebbero essere maggiori delle opportunità.

 

Si parlerà molto di più degli effetti del fenomeno Lega sulle fondazioni e sul sistema bancario. In questo caso gli impatti sono più limitati e nella vicenda più chiacchierata di Unicredit gli equilibri all’interno delle fondazioni azioniste non dovrebbero cambiare nel breve, anche se, a partire dalla fondazione Cariverona, l’impatto dell’avanzata della Lega nel giro di qualche anno si farà sentire con sempre maggior forza nei consigli delle fondazioni (come già accaduto dopo la vittoria di Tosi a Verona). Già da subito invece la “moral suasion” e l’attività di indirizzo del Governo sul sistema finanziario italiano si porteranno dietro tutto il peso di questa netta riconferma.

 

Molto più fumosi e incerti sono gli impatti sui grandi progetti infrastrutturali italiani a partire dal ponte sullo stretto fino alla Tav in Piemonte e ai potenziali siti per le centrali nucleari in Nord Italia. A questo proposito sarà interessante vedere come il partito più radicato sul territorio reagirà a eventuali e probabili proteste locali.