Tra pochi giorni potremo finalmente conoscere il destino di uno dei più importanti stabilimenti italiani di Fiat nonché di uno dei principali siti industriali italiani. Nell’incontro di ieri tra sindacati e Fiat si è deciso di indire un referendum tra gli operai dello stabilimento di Pomigliano D’Arco che deciderà se approvare o meno l’accordo sottoscritto tra Fiat stessa e quattro sindacati (Fim, Uilm, Fismic e Ugl). Martedì 22 giugno sapremo quindi se Fiat potrà portare avanti il piano di rilancio del sito o se la Fiom avrà abbastanza consensi tra gli operai per bloccarlo.
Giorni e giorni di polemiche, dichiarazioni e slogan hanno alzato un tale polverone che rintracciare i fatti è diventata un’impresa ardua. Mettere in ordine dati e numeri è quanto mai necessario per capire come mai la vicenda è salita via via nella graduatoria delle notizie, fino a occupare le prime pagine dei giornali. A Pomigliano lavorano circa 5.200 operai sui 22.000 occupati italiani di Fiat.
Una fabbrica di oltre 5000 operai in una regione che di certo non vanta il tessuto produttivo più importante d’Italia è già di per sé molto difficilmente sostituibile; contando l’indotto non è difficile immaginare che la sua chiusura sarebbe una tragedia per migliaia e migliaia di famiglie in una regione in cui trovare lavoro è per mille motivi complicato. Se questa è la situazione bisogna fare un minimo sforzo per capire se si è di fronte a un’azienda totalmente insensibile alle istanze sociali o se ci sono altri fatti e altri numeri.
Non si tratta in questo caso di essere pregiudizialmente pro o contro la Fiat e gli Agnelli, che di certo non sono sempre stati esenti da critiche e perplessità. Sinceramente ci sembra un po’ ingenua la posizione di chi pensa che la Fiat possa permettersi di andare allo scontro con il Governo che ha appena staccato gli incentivi, nel Paese dove paga le tasse e dove sia Fiat che i suoi proprietari hanno ancora tanti interessi.
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Potremmo rifare daccapo la storia delle condizioni in cui versa l’industria auto nella peggiore crisi dal 1929; in questo caso ci limitiamo a ribadire ancora una volta che anche gli ottimisti non credono in una ripresa di qualche significato nei prossimi anni e che in questo contesto l’industria auto ha disperatamente bisogno di recuperare efficienza. Potremmo anche aggiungere qualche considerazione sullo stato di benessere che tutti danno per scontato e che invece è insostenibile, ma ci dilungheremmo troppo.
In ogni caso a Pomigliano si lavora con un tasso di utilizzo della forza lavoro del 32% producendo (dati 2009) 32mila vetture all’anno (Alfa 147, Alfa GT, Alfa 159 berlina e sportwagon). In Polonia 6000 persone producono 600mila vetture all’anno con un’efficienza invidiabile. A Pomigliano la Fiat perde circa 150 milioni di euro di utile operativo all’anno. Non occorre un master in economia per capire che lo stabilimento così non ha futuro e che Fiat in uno dei settori più competitivi in assoluto non si può permettere questo handicap, non tanto per una questione di dividendi ma di sopravvivenza.
La proposta Fiat è spostare la produzione della Panda dalla efficientissima Polonia (che non ha fatto nulla di male), investire 700 milioni a Pomigliano e con le circa 300mila Panda prodotte all’anno riportare il tasso di utilizzo dell’impianto e della forza lavoro a livelli di efficienza. In altre parole il sito avrebbe un numero tale di auto prodotte da giustificarne l’esistenza (5200 operai compresi).
Solo che Fiat, visto che ci mette 700 milioni e visto che in Polonia si lavora già bene, ha posto alcune condizioni per non trovarsi a investimento fatto con brutte sorprese sul lato della produttività. In particolare ha chiesto di limitare assenteismo e flessibilità sugli straordinari. Nel primo caso vuole porre un freno ai casi in cui forme anomale di assenteismo si verifichino in concomitanza di scioperi e manifestazioni esterne (magari, per esempio, manifestazioni esterne sportive), “non riconducibili a forme epidemiologiche”.
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In questi casi se la percentuale di assenteismo è significativamente superiore alla media la pena sarà la “non copertura retributiva a carico dell’azienda dei periodi di malattia correlati al periodo dell’evento” anche se una commissione paritetica esaminerà i casi critici per valutare se non applicare “l’ammenda”. Nel secondo caso Fiat chiede un aumento delle ore di straordinario da 40 a 120, senza preventivo accordo sindacale, per fare fronte ai picchi di produzione.
Per la Fiom-Cgil (ma non per la Fim-Cisl per esempio) questo metterebbe in discussione il diritto di sciopero e il contratto nazionale. Le violazioni sarebbero talmente gravi che nemmeno un referendum con esito favorevole potrebbe bastare dato che si tratta di “diritti indisponibili” per i lavoratori; per questo non ha alcuna intenzione di firmare l’accordo che Fiat ha posto come condizione irrinunciabile per gli investimenti. Alle obiezioni della Fiom si contrappongono le tesi della Fim-Cisl secondo cui non c’è “alcuna violazione alle norme di legge e allo statuto dei lavoratori”.
Con quanto scritto ci sembra di avere dato tutti gli elementi per giudicare i torti e le ragioni e non nascondiamo un’immensa curiosità per l’esito del referendum “sui diritti indisponibili”. Una cosa è certa oltre ogni evidenza. Il mondo negli ultimi due anni è, dal punto di vista economico, talmente cambiato da essere irriconoscibile e molti Paesi europei tra cui il nostro hanno un debito enorme da ripagare. O si lavora di più e si risparmia o prima o poi qualche creditore arrabbiato sfonderà la porta di casa per presentare il conto.
In alternativa possiamo mandare a monte la finanza assassina e sanguinaria, i terribili investitori esteri (quelli che comprano i vestiti, le macchine e i mobili italiani) e optare per quell’isolamento e autarchia di cui i nord coreani hanno da sempre così tanto da festeggiare. La mancanza di realismo ha fatto più morti della guerra: prima ce ne rendiamo conto meglio è per tutti.