“L’unica area del mondo in cui l’insieme del sistema Fiat risulta in perdita è l’Italia”; “se in Italia non si può contare sul rispetto degli impegni delle controparti” Fiat sarà costretta ad “andare altrove”; Fiat discuterà “dell’ipotesi di uscita da Confindustria e della disdetta del contratto”.
I virgolettati precedenti sono solo una parte delle dichiarazioni con cui ieri l’amministratore delegato di Fiat Sergio Marchionne ha sconvolto il mondo politico, economico e sindacale italiano. Non bisogna essere dei raffinati commentatori economici per comprendere l’impatto devastante di queste affermazioni, fatte dall’ad della principale azienda manifatturiera italiana nell’attuale difficile contesto economico.
Fiat in Italia dà lavoro a circa 80 mila persone, un numero che non rende completamente l’idea del peso che questa società ha nel bene e nel male in Italia, dove anche grazie a Fiat vive un indotto di dimensioni rilevanti. Questa importanza “oggettiva” e innegabile in un Paese dove si contano milioni di esperti di Fiat finisce comprensibilmente molto spesso per occupare le prime pagine dei giornali.
Diciamo subito però che circoscrivere l’impatto di queste affermazioni al caso Fiat sarebbe per un’enormità di motivi il modo migliore per non capire quello che sta accadendo e la sfida insita nelle parole di Marchionne. Anche questa volta saremo costretti a leggere le rimostranze sugli incentivi pagati dal governo l’anno scorso e incassati puntualmente da Fiat o gli innumerevoli episodi con cui negli ultimi decenni il sistema Italia ha aiutato Fiat; ci sono state vicende poco opportune, poco edificanti e sicuramente anche molto fastidiose per il resto delle imprese italiane che con ogni probabilità comportano una sorta di credito morale e materiale dell’Italia nei confronti di Fiat.
Purtroppo però Fiat oggi vende le proprie macchine, camion e trattori in un mercato dove la concorrenza è agguerrita e dove per sopravvivere bisogna vendere prodotti buoni a prezzi competitivi. È meglio ribadire questa ovvietà perché sicuramente ci sarà qualcuno che straparlerà di statalizzazioni o proporrà soluzioni utopistiche che passano per rivoluzioni mondiali nei rapporti tra stati, tra lavoro e capitale, ecc., che avrebbero l’unico esito di avvicinarci a passi da gigante al Venezuela di Chavez, vero paradiso dei proletari di tutto il mondo. Nel frattempo le persone di buon senso hanno il problema di garantire la competitività di un’impresa e di un sistema nei prossimi mesi e anni e per inciso lo stipendio alla fine del mese per operai e impiegati.
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Fiat è oggi al centro delle attenzioni per la sua immagine, la sua storia e le sue dimensioni, ma basta aver letto con un po’ di attenzione le cronache economiche degli ultime mesi per essersi accorti che Fiat ha molti altri compagni di avventura che hanno scelto di spostare la produzione fuori dall’Italia (Indesit, Sogefi ecc…). Volendo estremizzare, i problemi di fondo potrebbero essere due: è giusto che un’impresa faccia profitti? È ancora possibile e a che condizioni avere in Italia industrie ad alta intensità di lavoro in un mondo in cui, a poche centinaia di chilometri, si lavora di più per molto meno?
Potremmo rispondere alla prima domanda parlando degli investitori, dei fondi pensione e dei piccoli risparmiatori azionisti della società (per quanto riguarda le quotate) che hanno spesso gli stessi obiettivi di lungo periodo degli Agnelli (per rimanere su Fiat). La risposta più convincente sembra un’altra: ci sono stati casi in cui il profitto di breve ha distrutto le prospettive di lungo periodo di un’impresa, ma è altrettanto certo che le imprese senza profitti non possono investire, che nei periodi di crisi finiscono subito in condizioni drammatiche e che sono l’oggetto preferito degli investitori finanziari e perché no degli speculatori. È molto facile fare soldi comprando un’azienda inefficiente per ristrutturarla drasticamente e poi rivenderla. Per chi è contro il mercato e le acquisizioni tornare al punto “Chavez” o in alternativa farsi una cultura sulle imprese italiane che hanno investito, comprato e lavorato all’estero da Eni in giù.
La seconda questione è decisamente più spinosa. Un’azienda come Fiat deve investire molto “immobilizzando il capitale” (il lancio di un solo nuovo modello ha un investimento dell’ordine delle centinaia di milioni di euro) e deve confrontarsi ogni giorno con una competizione estrema. Per fare le macchine ha degli stabilimenti nel mondo con dentro persone che lavorano (in Italia circa 80mila sui 200mila dipendenti totali del gruppo). Se investe centinaia di milioni di euro per aprire uno stabilimento in un certo posto produrrà macchine con un certo costo, che hanno un certo prezzo e per ovvi motivi non potrà cambiare idea. Se non vende abbastanza macchine perché sono più brutte o costano di più fallisce.
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I maggiori produttori europei e americani hanno in parte esternalizzato e in parte mantenuto stabilimenti nel paese d’origine. Fiat, in Italia, ha il 30% di quota di mercato, paga le tasse e riceve gli incentivi, quindi non le converrebbe nemmeno inimicarsi troppo il governo e l’opinione pubblica spostando tutto in Polonia, Serbia, Cina. Il problema è capire se Marchionne dice quello che dice “solo” per moltiplicare i dividendi degli Agnelli e di qualche sparuto gruppo di investitori o anche perché negli stabilimenti italiani ci sono problemi oggettivi che possono minare le prospettive industriali di Fiat.
I numeri dati sei mesi fa e commentati su queste colonne testimoniano che sicuramente c’è anche il secondo problema. Pensare poi che le regole che andavano bene per il mondo di 30 anni fa vadano bene anche oggi dopo una crisi che lascerà segni evidentissimi anche nei prossimi anni non sembra molto ragionevole. L’alternativa è molto semplice: o si cambia con intelligenza e flessibilità per ottenere il massimo per chi lavora e nel frattempo rendere le imprese competitive oppure l’unica via realistica e sostenibile nel lungo periodo è competere con Serbia e Polonia sui salari. Marchionne ha poi sicuramente ragione quando dice che per investire centinaia di milioni ci vogliono alcune garanzie sulla produttività.
A che cosa serve il sindacato? Le follie di un sistema bloccato e la scommessa contro il declino, non è una provocazione fascista ma il titolo di un libro molto istruttivo di Ichino del 2005 che trattava tra l’altro del caso “Alfa di Arese”. Giusto per dire che certe domande sono abbastanza datate e che non sono solo i capitalisti-speculatori a porsele.