Per commentare le performance borsistiche che si sono viste dopo la tragedia in Giappone di settimana scorsa occorre un minimo di pudore. Non occorre essere esperti di nulla per capire che una sequenza fatta da terremoto, tsunami e crisi nucleare non sia un bene in generale e per l’economia in particolare.
Fatta questa dovuta premessa, rimane sul tavolo qualche domanda sull’entità dei cali registrati dalla borsa di Tokyo, su come questo abbia avuto un impatto sul resto delle borse e infine su cosa potrebbe accadere nei prossimi mesi, tenuto conto dell’elevatissimo livello di incertezza ancora presente sui destini della centrale nucleare di Fukushima.
La primissima considerazione è che in presenza di eventi non classificabili, imponderabili e totalmente “anormali” il mercato diventa estremamente rozzo. L’unica cosa certa è che l’evento è molto negativo; tutto il resto, se è negativo di 50 o di 100, appartiene alla sfera dell’incalcolabile; una stima che si concluda con un numero è al di fuori della capacità di analisi di qualsiasi investitore.
Questo è il motivo dei -6,2% (lunedì) e -10,6% (martedì) che si sono visti sulla borsa di Tokyo. Niente di strano quindi se capiterà di vedere rialzi forti quando le cose si chiariranno e se, come speriamo, miglioreranno; ma fino a quel momento, che per ora appare lontano, è difficile pensare a una chiara inversione della tendenza.
La seconda considerazione è che, da un punto di vista meramente economico, il fatto che questo disastro sia accaduto in Giappone e non in un’altra qualsiasi zona del mondo assume un’importanza particolare. Il Giappone è la seconda economia mondiale (o terza dopo i recentissimi progressi della Cina), ha società leader in settori chiave (industria auto, elettronica di consumo, ecc.) ed è un mercato di importanza rilevante per molte società occidentali.
Nonostante questa “forza economica”, sul Paese grava una quantità di debito pubblico enorme, sia in termini relativi che assoluti, pari al 200% del Pil; questa debolezza ha amplificato i timori dei mercati preoccupati che il Giappone questa volta (a metà degli anni ’90 il rapporto era la metà) non abbia abbastanza risorse per risollevarsi in breve tempo.
Questa tragedia avrebbe avuto conseguenze gravi anche in un contesto di crescita sostenuta dell’economia mondiale. In una situazione ancora piena di incognite e timori per una ripresa fragile aggravata da crisi petrolifere e debiti statali, i fatti di venerdì possono mettere in forse uno scenario di graduale miglioramento o perfino comprometterlo definitivamente.
Nel marasma generale si sono invece notati alcuni movimenti piuttosto marcati sui mercati finanziari. Il mercato ha già fatto alcune scommesse su diversi settori. Sono stati penalizzati ovviamente i gruppi che hanno una forte esposizione al Giappone, dai titoli del lusso fino a chi ha controllate di peso nel Paese; è il caso per esempio di Renault proprietaria di Nissan.
Hanno perso i gruppi legati alla produzione di energia nucleare, ma soprattutto si è visto un chiaro spostamento degli investitori sulle società di energia rinnovabile; la scommessa è che la produzione di energia nucleare diminuirà o costerà di più a causa di nuovi e maggiori investimenti per la sicurezza, il petrolio è soggetto a rischio politico e il suo prezzo continua ad aumentare, nel medio-lungo periodo le rinnovabili diventano quindi un’alternativa più appetibile.
Non è molto poetico, ma il mercato scommette già su chi prenderà quote di mercato ai giapponesi; per esempio, alcune società di componentistica auto ieri hanno brillato in borsa sulle “difficoltà” delle concorrenti nipponiche. Stesso discorso per alcuni produttori di componenti per l’elettronica. Chi si aspettava un deprezzamento dello yen, invece, è rimasto deluso e rischia di rimanere tale ancora per qualche tempo. I giapponesi sono i secondi, dopo i cinesi, possessori di debito pubblico americano. Il rimpatrio di capitali giapponesi, vendendo bond americani, ha fatto apprezzare lo yen, proprio come accaduto dopo il terremoto del gennaio ’95.
Per il momento, l’unica cosa certa è che fino a giovedì scorso gli occhi erano fissi sui dati del mercato del lavoro americano e, forse, sulle sorti del Nord Africa con le relative implicazioni su petrolio e gas, da lunedì invece sono solo dettagli di secondaria importanza.