La notizia di lunedì è che gli italiani sono andati in massa a votare per fermare il nucleare e la gestione privata dei servizi idrici. Non importa se abbia influito la vicenda di Fukushima, la campagna contro la privatizzazione dell’acqua (che non è mai stata proposta da nessuno) o semplicemente un voto contro chi governa, a prescindere, a testimonianza di un’insofferenza a cui probabilmente in questa situazione economica non sarebbero sfuggiti nemmeno partiti di tutt’altro schieramento. Fare leva sulla paura nucleare o agitare lo spetto di avide e spregiudicate mani capitaliste persino sull’acqua sono argomenti facili tra cittadini comunque scontenti per la situazione economica e per un governo che è da mesi al centro di scandali.
Questa però è storia; oggi chiunque sia dotato di un minimo realismo e buon senso deve fare i conti con le conseguenze del voto. ll sospetto che non sia stato un voto molto meditato a prescindere dalle opinioni diventa fortissimo quando si constata che il dibattito su cosa si debba fare ora è allo zero, nonostante le conseguenze del voto siano molto costose e difficili da affrontare.
La società quotata più penalizzata dal referendum è stata Acea; per chi non lo sapesse è la utility di Roma controllata dal Comune al 51%, a cui distribuisce dividendi. Acea ha avuto la colpa di aver basato il piano industriale sul settore acqua (625 milioni di euro di investimenti previsti nel periodo 2011-2013); ieri sera la società ha dichiarato che dopo il referendum “resta in attesa dei necessari provvedimenti legislativi conseguenti, al fine di verificare la sostenibilità dei relativi investimenti programmati” e che “alternativamente, indirizzerà le proprie risorse in Italia negli altri business”. In pratica significa che dopo il referundum, Acea, non esattamente la Lehman Brothers delle utility, non ha più nessun interesse a investire nel settore, perché è stata cancellata la possibilità di remunerazione del capitale investito.
La domanda su chi farà questi investimenti rimane aperta; di certo non lo Stato italiano indebitato e costantemente sotto esame dei mercati finanziari al punto che l’attuale governo, che non pare se la passi benissimo in quanto a consenso, non può nemmeno azzardarsi a provare ad abbassare le tasse. Il comune di Roma ovviamente non può essere preso in considerazione neanche per scherzo con i suoi dodici miliardi di euro di debiti. La situazione non cambia molto se ci si sposta a nord o a sud di Roma, dato che nemmeno nei comuni più ricchi si potrebbe far fronte a questi investimenti. L’unica alternativa è quella di remunerare i costi, un meccanismo a bassissimi margini, che comprensibilmente si presta a facilissime distorsioni, inefficienze e sprechi, soprattutto se completamente e solamente statale.
In un caso si remunerano gli investimenti e quindi si è incentivati ad avere una struttura efficiente, con la possibilità che la concessione non venga rinnovata, nell’altro ci pensa senza nessun controllo reale l’efficientissimo stato italiano. Chi invoca l’intervento statale dovrebbe almeno indicare con quali soldi e con quali obiettivi di efficienza, altrimenti rimane valida l’accusa di aver preso una posizione ideologica e di averlo fatto senza pensare minimamente alle conseguenze. La beffa finale sarebbe un intervento dell’Unione europea che obblighi a reintrodurre la norma della remunerazione del capitale, fatto per niente da escludere, e che magari entri nel mercato in grande stile una società francese in un business finora dominato dagli italiani.
La vicenda nucleare è meno lineare; di certo non ha aiutato osservare cosa fanno i nostri concorrenti europei più diretti, la Francia e la Germania, che chiuderà i reattori entro il 2022; i tedeschi si sono presi vent’anni di tempo per capire cosa fare, mentre ieri in Giappone, lo stesso stato della centrale di Fukushima, un sondaggio condotto dal principale quotidiano (Asahi Shimbun) indicava il 74% dei giapponesi favorevoli a un graduale sospensione della generazione di energia nucleare. Nemmeno dopo lo tsunami ci si azzarda persino a chiedere lo stop immediato, solo sospensione graduale, mentre desta stupore che dopo meno di sei mesi dallo tsunami ci sia ancora il 26% della popolazione favorevole. Cosa sanno i tedeschi, i francesi e i giapponesi che in Italia non sappiamo? Oppure cosa sappiamo in Italia che gli altri non sanno?
Il prezzo dei combustibili fossili è solo salito e queste risorse arrivano da Paesi politicamente instabili su cui si concentrano gli appetiti di molti, come in Libia. Essere un compratore obbligato non è il massimo quando si devono fare affari; essere un Paese che tutto il mondo sa aver bisogno di enormi quantità di gas e carbone per far funzionare le centrali e scaldare le case non aiuta a comprare al meglio, soprattutto se non si può nemmeno agitare la minaccia di un’alternativa. Le rinnovabili sono convenienti perché sussidiate dallo Stato con le tasse dei cittadini e ogni giorno si legge della pala eolica che deturpa il litorale o della condotta che sfregia la montagna.
La partita nucleare in Italia sarebbe stata una grande opportunità per Enel, controllata dal Tesoro, e probabilmente per A2A tramite Edison. Ora non ci resta che sperare che l’Eni continui a trovare e produrre gas e a farcelo pagare (caro), anche se quello che è successo in Libia, dopo l’intervento umanitario dei francesi non lascia spazio a molto ottimismo. Coltivare ambizioni da potenza industriale, che consuma energia elettrica, con queste premesse diventa quasi grottesco, ma questo putroppo non è un tema all’ordine del giorno.