Moody’s venerdì sera ha dichiarato di aver posto sotto osservazione il rating sul debito sovrano italiano in vista di un possibile downgrade; i mercati lunedì hanno reagito alla notizia con una prevedibile batosta per la borsa italiana.

La reazione era di facile previsione perché da diversi mesi la principale fonte di preoccupazione dei mercati è la sostenibilità dei debiti di alcuni stati e la capacità che questi hanno di ripagarli. Dopo la crisi iniziata nel 2008 l’economia reale ha recuperato in parte e ora sembra essersi stabilizzata seppur su livelli anemici; il problema è che nel frattempo i debiti statali di alcune delle principali economie sono esplosi e ora tutti si interrogano su come si possa ridurre il debito accumulato. I problemi riguardano certi stati europei, alcuni dei quali sostanzialmente già falliti (Grecia e Irlanda), oltre che gli Stati Uniti con il dollaro sopra 1,40 nonostante i “problemini” che affliggono diversi Paesi dell’area euro.



È utile fare questa premessa per ricordare che i tempi sono molto difficili e che in questo contesto l’Italia non può essere paragonata a Grecia e Spagna non tanto per sciovinismo, ma perché il debito italiano, considerato in valore assoluto, ha un peso nettamente superiore agli altri Paesi finora finiti sotto osservazione.



Nel comunicato stampa di Moody’s non si leggono particolari spunti o elementi di novità che giustifichino un cambio di opinione; i punti di forza e di debolezza dell’Italia sono sempre gli stessi dall’inizio della crisi, così come sono stranoti i motivi per cui stiamo con un piede nel gruppo dei cattivi e con l’altro in quello dei buoni. Per Moody’s, i motivi che potrebbero giustificare il downgrade sono tre: i problemi macroeconomici strutturali dell’Italia che si potrebbero aggravare in un contesto di tassi crescenti; i rischi sul piano di consolidamento fiscale; i rischi che derivano dalle mutate condizioni di finanziamento per i Paesi europei con un alto debito.



L’Italia è in una sorta di vicolo cieco: non può abbassare le tasse per stimolare la crescita perché altrimenti si dubiterebbe della volontà del Paese di tenere sui conti e i tassi di interesse diventerebbero quasi immediatamente inostenibili; d’altra parte la crescita dell’economia italiana, rebus sic stantibus, sarà molto bassa e non permetterà di ridurre il debito.

Il comunicato stampa di Moody’s dice un’altra cosa e le dichiarazioni di Fitch di ieri non fanno altro che sottolineare quale sia il vero focus per le agenzie di rating. Moody’s dice infatti che l’adozione di nuove misure fiscali conservative potrebbe essere difficile dato l’indebolimento della base elettorale del governo, ma soprattutto che nella prossima revisione verrà esaminata l’abilità del governo di raggiungere “ambiziosi obiettivi di consolidamento fiscale”, nonché “il nuovo piano fiscale del governo”.

Ieri il responsabile dei rating sovrani di Fitch ha dichiarato: “L’elemento chiave è per noi che il governo rimanga impegnato nel consolidamento di bilancio e che ci siano ulteriori dettagli e una strategia credibile per il periodo dal 2012 al 2014. È quanto monitoreremo con attenzione”.

L’interesse dei mercati per le vicende politiche italiane è salito di tono e sul Financial Times di lunedì si poteva persino leggere un articolo su Pontida. Senza voler rubare il mestiere a chi si occupa di politica, l’Italia con il suo debito e con le sue, deboli, prospettive di crescita non è nelle condizioni di poter ignorare queste osservazioni senza poi dover pagare un costo probabilmente insostenibile.

È inutile dire che se in questo contesto il governo dovesse cadere, l’Italia si troverebbe immediatamente, e a ragion veduta, al centro della speculazione, anche perché l’attuale ministro dell’Economia è una garanzia per i compratori di bot stranieri, con tutte le conseguenze politiche del caso. Le agenzie di rating non hanno fatto altro che ricordare quanto sia alto il livello di guardia sull’Italia che pure negli ultimi anni è stata ferma nel contenere il deficit.

Se il problema fosse “solo” questo basterebbe continuare a comportarsi come nei tre anni precedenti per evitare i destini infelici di Grecia, Irlanda e in un certo senso Spagna e Portogallo. Il problema, invece, è che finchè i tassi di crescita del Pil italiano saranno questi in un contesto macroeconomico piuttosto difficile quello che è stato fatto non è più sufficiente. La questione diventa decisiva con il governo impegnato a riconquistare consensi senza poter spendere un euro per sostenere la crescita e con i mercati che non hanno più nessuna indulgenza.

Un ipotetico nuovo governo non avrebbe spazi di manovra superiori e sconterebbe la naturale diffidenza iniziale dei mercati. Se aumentare le tasse è fuori discussione e abbassarle anche, non ci sono molti motivi di ottimismo per l’Italia che sarà sempre nel mirino e per chi oggi è nella situazione di dover recuperare consensi. Rimarrebbe l’ipotesi di cominciare a lavorare veramente sui problemi strutturali anche se i frutti non si vedranno nel breve; il fatto che l’elenco sia lunghissimo – dai sistemi sanitari dissestati di alcune regioni fino all’incertezza normativa che frena gli investimenti, passando per i problemi di produttività che daranno sempre motivo ai Marchionne di questo mondo per lamentarsi – è in un certo senso positivo, perché c’è molto spazio per migliorare.

Magari è la volta buona che con gli stessi mezzi si recuperano consensi tra gli elettori e le agenzie di rating, perché i tempi stringono e tutti sono più sensibili alla reale portata dei problemi e alla sostanza dei fatti.