Dopo più di un anno dai rumors su una possibile fusione tra Mediaset e Telecom Italia, l’universo dei media italiano è tornato al centro dell’attenzione in questi giorni, con una serie di notizie piuttosto interessanti. Il passaggio di Santoro a La7 sembra sempre più solo una formalità e la borsa ieri ha festeggiato facendo fare a Telecom Italia media un rotondissimo +17,5%.

Le possibilità quindi sono due: la prima è che Santoro abbia un credito tale nei confronti del pubblico da avere, o far credere di avere, un impatto così pronunciato, quasi 60 milioni di euro, su una società quotata che capitalizza 300 milioni di euro; la seconda è che la notizia del passaggio di Santoro sia letta, o debba essere letta, all’interno di quella che può essere la rivoluzione più importante nei media italiani degli ultimi anni.

Se è vero, come si usa dire, che tre indizi fanno una prova, allora dobbiamo aggiungerne altri due, oltre a quello del passaggio di Santoro, per avere la prova che si possa trattare in realtà della seconda opzione. Non è una sfida da poco, visto che il mondo dei media italiani è da anni bloccato su un duopolio Rai-Mediaset sporcato dal terzo incomodo Sky, che non è mai sembrato un “terzo polo”. Sveliamo subito parte del giallo dicendo che in questo caso molto fa ritenere che il terzo polo, o qualcosa che gli somiglia molto, stia per nascere veramente. La parte più interessante è sul soggetto che ne sarebbe promotore, ma prima bisogna sviscerare i tre indizi.

Il primo è appunto il passaggio di Santoro a La7, che è stato preceduto da quello altrettanto pesante di Mentana e che potrà essere seguito da quello di Fazio. È difficile pensare che tre big di questo tipo, soprattutto Santoro, si muovano senza avere idea di un progetto nuovo che cambi il volto della società televisiva, un progetto serio che dia garanzie di lungo periodo e che sia “doc” per un conduttore che si presenta come baluardo di indipendenza in un mondo di mercenari. Telecom Italia media ha chiuso gli ultimi tre anni con perdite per 94, 73 e 55 milioni di euro e il suo principale azionista, Telecom Italia al 78%, non sembra volere o potere creare un terzo polo.

Il secondo indizio è una dichiarazione dell’ad di Telecom Italia media a Il Fatto Quotidiano: “Entro fine anno avremo un azionista di maggioranza relativa con il 40% del capitale, il 37% all’attuale proprietà e il 23% sul mercato”. Già settimana scorsa i rumours davano per probabile l’ingresso del gruppo L’Espresso in Telecom Italia media con una quota del 20% o direttamente con l’acquisto del canale televisivo. Le dichiarazioni di un ad hanno evidentemente un peso specifico molto diverso da qualsiasi rumor. In ogni caso, per il massimo dirigente di Telecom Italia media qualcuno dovrebbe sborsare circa 120 milioni di euro per comprare il 40% della società diventandone il principale azionista.

Oltre a questo investimento iniziale, ci sarebbero i costi, probabilmente molto ingenti, per l’espansione e il potenziamento della “squadra”. Ma non è finita qui: La7 è in perdita a livello di reddito operativo ed è impensabile che riempiendo un canale di anchorman e giornalisti politici si possano attrarre milioni di spettatori tutte le sere per tutta la sera. Sicuramente con nuovi e prestigiosi volti aumenterà lo share di qualche giorno della settimana, ma i numeri veri non possono arrivare con una programmazione “d’elite”, anche perché immaginare che ci sia un target di pubblico disposto a passare le serate sorbendosi una sequenza ininterrotta di Lerner, Mentana e Santoro, a prescindere da valutazioni politiche, è completamente irrealistico.

Questa è l’introduzione del terzo indizio che aiuta a rispondere a una domanda fondamentale e cioè chi possa oggi, in una situazione economica non florida, sobbarcarsi questo onere, questi investimenti per lo più destinati molto ma molto difficilmente a essere ripagati. Entro fine giugno dovrebbe arrivare la sentenza di secondo grado sul Lodo Mondadori; una perizia ordinata dalla Corte d’Appello fissa tra i 440 e i 490 milioni il danno subito dalla Cir di De Benedetti (a sua volta principale azionista del gruppo L’Espresso, editore de La Repubblica): soldi che uscirebbero dalle casse di Fininvest. Anche ipotizzando una riduzione, si tratterà probabilmente di una somma in grado di consentire a Cir di lanciarsi in questa avventura imprenditoriale in grande stile. Cir diventerebbe l’azionista “giusto” con i soldi necessari per l’operazione. De Benedetti consumerebbe una vendetta da antologia sfidando la Mediaset di Berlusconi con i soldi di Fininvest.

A questo proposito bisogna fare una precisazione finale. Dal punto di vista economico, la più danneggiata sarebbe la Rai, che perderebbe un conduttore capace di garantire uno share eccezionale assai appetibile per gli inserzionisti, ma complessivamente è difficile immaginare che i numeri della stessa Rai vengano stravolti, a meno che non si ipotizzi un’Isola dei famosi formato La7. Nemmeno una Cir ricca del risarcimento per il Lodo avrebbe così tante munizioni per sfidare i due colossi della tv generalista sul loro campo.

Le società media, per motivi che si possono facilimente intuire, hanno però un grande interesse a prescindere dagli utili che possono generare per il ruolo di potere/condizionamento che sono in grado di esercitare. Una televisione collocata in un’area ben specifica del panorama politico italiano, con dei pezzi da novanta alla conduzione, avrebbe un potere di condizionamento su quell’area politica eccezionale e probabilmente incontestabile da chiunque non avesse un mezzo (televisivo) all’altezza, e cioè tutti gli altri.

Dal punto di vista borsistico ci si può interrogare se l’operazione sarà fatta da questa o quella società della galassia De Benedetti (intendiamo quale società spenderà dei soldi per una società in perdita), ma dal punto di vista finanziario/politico il risultato non cambia. Il centrodestra è sempre stato accusato di avere un padrone. La domanda a questo punto è questa: se lo scenario che abbiamo delineato si verificasse, anche il centrosinistra avrebbe un “padrone” pur meno visibile?