Oggi Fiat auto presenterà i risultati relativi al secondo trimestre; prima ancora che dalla bocca di Marchionne esca qualsiasi parola sui numeri del trimestre o sulle prospettive del gruppo, almeno una novità sarà già evidente. Per la prima volta Fiat presenterà i dati dal Brasile, certificando in modo inequivocabile che l’azienda italiana è diventata un operatore globale, con tutte le conseguenze del caso.



Oltre all’“immagine” da multinazionale che opera in diversi continenti a confermare questa percezione saranno, probabilmente, anche i numeri che il gruppo presenterà. Il reddito operativo dell’auto arriverà dal Brasile e da Chrysler, che solo pochi mesi fa sembrava destinata al fallimento, mentre l’Italia confermerà di essere un mercato a zero margini. A sugellare risultati buoni anche una riduzione del debito importante a testimonianza che la creatura di Marchionne fa “i fatti”, generando cassa in modo importante.



Fatta questa premessa, le analisi si divideranno come accade ormai da mesi sulle prospettive industriali-finanziarie del gruppo e sulle conseguenze che queste hanno sugli stabilimenti italiani. Sul primo versante basta ricordare che da mesi ci si interroga sulla quotazione di Ferrari, sui tempi della quotazione di Chrysler, se mai avverrà e con che quota di possesso da parte di Fiat (che potrebbe anche raggiungere il 100%), sui destini di Alfa Romeo e magari perfino sulla cessione di Magneti Marelli, che sembra non essere più strategica per il gruppo.

Quello che conta, al di là delle ipotesi e persino dei fatti che potrebbero accadere, è che negli ultimi mesi l’unica costante innegabile è stato lo sforzo per conquistare e ristrutturare Chrysler. Si può cedere una quota di Ferrari, valutare offerte per Alfa Romeo e per Magneti Marelli, ma si deve far aumentare la quota nel gruppo americano nel più breve tempo possibile. La conclusione è che oggi Fiat è un gruppo internazionale, guidato da un manager internazionale che ha come obiettivo quello di creare valore per gli azionisti; il che significa, tra l’altro, essere un’azienda profittevole indipendentemente dai cicli economici, dai destini di un singolo mercato, avendo una strategia industriale valida che permetta di produrre e vendere auto a costi competitivi.



Il gradimento del mercato si può misurare tutti i giorni con le performance del titolo (come nel caso di Fiat industrial ieri), la giustezza o meno della strategia si può misurare con i profitti che l’azienda è in grado di generare, con le quote di mercato e il numero di modelli venduti. Quello che rimane da capire è quale sia il destino della presenza industriale di Fiat in Italia.

Se facessimo una proporzione tra modelli venduti e profitti generati e stabilimenti, il peso industriale dell’Italia apparrebbe eccessivo. Il condizionamento che il sistema Italia può esercitare nei confronti di Fiat è molto basso: la competitività degli stabilimenti è bassa, il mercato italiano va male, i profitti vengono da altre parti del globo, la società è debitrice del governo americano per l’operazione Chrysler, dei sindacati americani per i sacrifici fatti, ecc.

Affrontare il tema degli investimenti in Italia di Fiat richiede probabilmente un cambio di mentalità radicale. Non si tratta più di ottenere concessioni e investimenti solo con la lotta sindacale o con le pressioni politiche; anzi, anche se suona particolarmente crudo se la realtà dei fatti è quella appena descritta, è lecito nutrire molti dubbi sull’efficacia di certi strumenti. I termini con cui affrontare il problema sono probabilmente altri e cioè, per farla breve, un gruppo industriale internazionale, la Fiat, non investe in Italia perché la odia, perché non può sfruttare i lavoratori o semplicemente perché le condizioni non permettono di conciliare questa volontà con l’esigenza di garantire la sopravvivenza della società nel medio-lungo periodo. Banalmente quanto incide l’Irap nelle decisioni di Fiat, quanto la mancanza di infrastrutture, quanto la mancanza di flessibilità, di regole certe e così via.

Il fatto che Fiat tentenni, per usare un eufemismo, a investire in Italia e di per sé inquietante anche perché al momento le condizioni economiche generali non fanno intravedere molte alternative, tanto più che molti altri gruppi industriali hanno deciso di spostare la produzione dall’Italia. La Germania dimostra che non è per nulla impossibile conciliare certe garanzie con una forte presenza industriale. Dato che in Italia siamo in 60 milioni ed è impossibile e forse anche fortemente sconsigliato pensare di mantenere certi livelli di welfare con solo il turismo sarebbe il caso che il dibattito che ci sarà domani dopo i risultati di Fiat auto, probabilmente molto buoni, cominciasse ad affrontare anche questi problemi. Lo spettro greco non compare solo quando le agenzie di rating si comportano male.