Meno di due settimane fa e prima del downgrade di Standard & Poor’s lo spread tra Btp e Bund si attestava stabilmente sopra 500 punti; ieri lo stesso indice segnava quota 420 dopo una serie di giornate positive che ha ridotto la differenza tra il rendimento dei titoli statali italiani e quelli tedeschi di più di 100 punti. Rispetto alle notizie degli ultimi mesi, alle illusioni che si erano coltivate per il cambio di governo in Italia, ai downgrade con cui le agenzie di rating hanno colpito i titoli di stato, le recenti evoluzioni dello spread non possono essere ignorate indipendentemente dalla visione che si ha sui futuri scenari economici e finanziari. A scanso di equivoci e qualsiasi sia l’interpretazione che si dà al fenomeno, 400 è meglio di 500 senza alcuna possibilità di discussione; cosa possa giustificare questa riduzione e soprattutto che peso si debba dare a questo miglioramento invece è tutt’altro che scontato o di immediata spiegazione.
Sarà noioso e magari persino fastidioso, ma in questi casi bisogna sempre fare un minimo di cronistoria, altrimenti in un periodo come l’attuale di volatilità estrema si rischia di perdere qualsiasi tipo di riferimento. Il primo elemento che è bene ricordare è che l’allarme rosso è suonato, per stessa ammissione dei principali banchieri italiani, quando lo spread toccava l’allora inaudita cifra di 400 a inizio novembre; le cifre superiori a 500 invece hanno fatto capolino quando gli scenari più inquietanti di rottura dell’euro e di fallimento di alcuni dei principali paesi europei sembravano una delle, perfettamente possibili, conseguenze della situazione attuale, al punto che persino nel prospetto informativo dell’aumento di Unicredit si poteva trovare tra i rischi potenziali per gli investitori la rottura dell’euro.
Questi riferimenti, per quanto rozzi, aiutano a capire il contesto in cui i mercati si muovono. Uno spread a 550 non è sostenibile nel medio-lungo periodo dall’Italia e significa che il mercato sconta lo scenario peggiore, rottura dell’euro-fallimento dell’Italia; uno spread a 400, o giù di lì, è comunque una condizione da credit crunch, in cui i costi di finanzimento per le imprese sono quasi proibitivi e in cui le banche stesse non possono rifinanziarsi autonomamente sui mercati.
Bisogna però prendere per buono questo cambio di umore dei mercati; è meglio usare il termine cambio di umore perchè questa riduzione è ancora “molto giovane” e perchè il mercato ci ha abituato a violenti cambi di opinione. Possiamo tentare di tradurre questa riduzione in un cambio, per ora, di view dei mercati sull’area euro. Il programma di finanziamenti a tre anni della Bce di certo non risolve i problemi strutturali dell’Europa, nè il problema della crescita per le economie di alcuni paesi, però riduce sensibilmente le possibilità di una crisi di liquidità per il sistema bancario e aiuta gli Stati a emettere debiti a costi più sostenibili; in altre parole riduce la probabilità che gli scenari più drammatici, che pure venivano contemplati, si avverino o quanto meno ne rimanda la possibile realizzazione. Giusta o sbagliata che sia, e in un certo senso non importa, questa è la convinzione che i mercati hanno oggi.
Tutto questo avviene in un mercato che in un certo senso è già vaccinato agli scenari apocalittici e che già si era preparato al peggio, come testimoniano l’andamento dei titoli finanziari, dell’oro, del cambio euro-dollaro e, perchè no, come hanno già certificato le agenzie di rating con i downgrade a cose già fatte o con, per rimanere sui fatti di giornata, le nuove stime sul Pil italiano del Fondo monetario internazionale che “scommette” su due anni di recessione per l’Italia (-2,2% il Pil nel 2012 e -0,6% nel 2013). È evidente però che questa, lo spread a 420, non può essere in nessun modo considerata né una situazione normale, né salutare; la quota dello scampato pericolo è probabilmente sotto i 300 punti, che al momento non appaiono esattamente dietro l’angolo.
In ogni caso, per quanto riportare il costo del debito italiano sotto il livello di guardia sia vitale, pensare che lo spread sia l’unico problema è fuorviante. Le stime comunicate ieri sul Pil italiano dal Fmi per i prossimi due anni sono preoccupanti almeno quanto lo spread, così come è inquietante che a tre anni e mezzo dal fallimento di Lehman il sistema finanziario sia sostanzialmente immutato. Pil, finanza e spread sono “problemi” collegati; cominciare a risolvere quello dello spread è un buon inizio.