Alcune società, alcune vicende borsistico-finanziarie si meritano le prime pagine dei giornali, altre invece rimangono materia per specialisti, investitori, addetti ai lavori. Ieri il quotidiano per “addetti ai lavori” per eccellenza, il Financial Times, dedicava ampi spazi a diverse vicende finanziarie italiane assortite. Dalle indagini della procura di Trani sulle agenzie di rating, passando ai destini industriali delle banche italiane fino, per concludere, a una rara intervista del quasi neo amministratore delegato di Generali, Mario Greco. È questo ultimo argomento che, forse, sarebbe meglio separare dall’elenco degli argomenti per specialisti per dare un’occhiata un po’ più da vicino.
Cosa rappresentino le Generali per il “sistema Paese” è un argomento già di per sé estremamente interessante. Intanto sono di gran lunga il principale assicuratore italiano e uno dei membri storici dei “big-three” europei dell’assicurazione insieme alla francese Axa e alla tedesca Allianz. Poi sulla via di Trieste sono passate – e tuttora passano – alcune delle partite industriali-finanziarie principali del Paese tra cui, per non fare nomi, Rcs, Telecom Italia, Pirelli, Gemina, ecc., in cui il colosso triestino detiene partecipazioni sensibili. Cuccia, sempre per non fare nomi, non ha mai nascosto la propria passione per la società di assicurazione e per le sua capacità di investimento.
Tornando all’intervista di cui sopra l’ad di Generali, tra una cosa e l’altra, a un certo punto se ne esce con l’ipotesi di cessione del 51% di Ppf, la joint venture assicurativa tra l’imprenditore ceco Kellner e Generali nell’Europa dell’Est. La cessione rientrerebbe nel piano di dismissioni che Generali sta attuando. La motivazione sarebbe che altre zone del globo offrono prospettive di crescita migliori di quelle che l’Europa dell’Est presenta oggi.
Le cose sembrano però un po’ più complesse di come potrebbero apparire. Il gruppo intanto è alle prese, come tutti, con le conseguenze della crisi e, in particolare, per la natura delle sue attività, con le difficoltà del debito sovrano italiano che hanno fatto da più parti sollevare alcune perplessità sull’esigenza di migliorare la patrimonializzazione del gruppo. Poi da molti mesi sul mercato ci si interroga sui 2 miliardi e mezzo di euro che Generali potrebbe sborsare se Kellner dovesse esercitare l’opzione di vendita che ha nei confronti del gruppo triestino sul 49% rimanente della joint venture di cui sopra, e cioè di Ppf. In particolare, a questo riguardo il downgrade di Moody’s subito da Generali a luglio potrebbe aver peggiorato di non poco le cose e potrebbe mettere nelle condizioni l’assicurazione di dover sborsare i 2 miliardi e mezzo con due anni di anticipo sul previsto.
Intanto il gruppo procede con le dismissioni, ma come noto questo non è il mercato del venditore e, potendo, sarebbe meglio poter aspettare l’offerta giusta piuttosto che mettersi nelle condizioni di venditore obbligato o quanto meno di venditore affrettato. Per la verità ci sarebbe una soluzione semplice che metterebbe a posto ogni problema: si chiama aumento di capitale. Però i mercati sono quelli che sono, lo stato di salute finanziaria dello Stato italiano è quello che è e anche Mediobanca, socio di maggioranza relativa e guida di Generali, ha i suoi problemi. Per cui quasi qualsiasi soluzione possibile è preferibile a un aumento di capitale a cui, probabilmente, gli azionisti “industriali” farebbero molto fatica a partecipare con l’inevitabile diluizione.
Cosa preferisca il “mercato” è una domanda facile facile, nel senso che mettere i soldi in una società finanziaria italiana oggi non è proponibile in nessun comitato di investimento o gestione. Per cui avanti con le dismissioni anche delle parti buone, probabilmente le uniche vendibili, e con prospettive di crescita, come sono indubbiamente i mercati dell’Europa dell’Est, poi si vedranno, forse, gli investimenti, magari nel mercato del venditore, in nuove aree.
La vicenda è più grande di come appare da queste poche righe, perché tocca il ruolo storico di Mediobanca in Generali e, per questo stesso fatto, il riassetto del sistema finanziario italiano. Senza volersi spingere troppo oltre è impossibile non coltivare qualche preoccupazione per il sistema Paese e per la marginalizzazione, questa volta finanziaria, dell’economia italiana sui mercati europei e internazionali.
Un fatto spiacevole se si considera che il risparmio è ancora, nonostante tutto, uno dei vantaggi competitivi italiani e che certe cifre, seppure dai numeri imponenti, non sono impossibili e impensabili nemmeno in questa fase e nemmeno in questi mercati, purché si abbia voglia e malizia. Il mercato, nel caso, se ne faccia una ragione, anche perché di soldi se ne sono persi tanti di più in società più all’“avanguardia” finanziaria e in latitudini meglio pubblicizzate, a meno che si pensi che Lehman Brothers e Northern Rock fossero due popolari della provincia italiana.