Ieri mattina Sawiris ha concesso un’intervista in esclusiva a Reuters su Telecom Italia, che da qualche settimana è tornata a far parlare di sè per possibili operazioni straordinarie. L’imprenditore egiziano ha avanzato la proposta di un aumento di capitale da 3 miliardi di euro a 0,7 per azione. L’aumento servirebbe per rafforzare la struttura finanziaria di Telecom Italia e, soprattutto, per dotarla delle risorse necessarie a investire in America Latina, in particolare in Brasile. Lo scopo finale dell’operazione targata Sawiris sarebbe l’operatore di banda larga brasiliano GVT che sarebbe in vendita per 6-7 miliardi di euro.
Riassumendo in modo brutale, questa proposta per gli azionisti attuali è molto probabilmente irricevibile; l’investimento sarebbe molto ingente e dai ritorni incerti e, soprattutto, il prezzo dell’aumento decisamente basso e molto diluitivo. Ma il magnate egiziano dice altre due cose: la prima è che Telefonica “tiene in ostaggio Telecom Italia per evitare che cresca in America Latina”; la seconda è che lo spin-off della rete sarebbe una catastrofe, perchè farebbe perdere a Telecom Italia l’unica cosa che la differenzia nel mercato tlc italiano.
Sul primo punto è davvero difficile non chiedersi quale ragione abbia spinto Telefonica a entrare nel capitale di Telecom, andando incontro a una perdita notevole, non avendo motivazioni di “sistema” e conoscendo molto bene, da operatore telecom globale, quali sono le problematiche strutturali del settore. L’idea che Telefonica sia dove sia per assicurarsi che lo scenario competitivo in Brasile non cambi a suo sfavore non è per niente peregrina. Anche sulla seconda questione è difficile non trovare qualche punto di accordo dato che la rete è senza dubbio la parte meno replicabile dell’ex monopolista italiano.
Lo scenario in cui si manifestano gli ultimi rumours e proposte è quello di un settore che a livello globale fatica a remunerare adeguatamente i propri investimenti in rete ed è soggetto a una regolamentazione forte da parte di autorità nazionali e sovranazionali. Nel caso italiano allo scenario si aggiunge la singolarità della compagine azionaria che attualmente controlla Telecom (Telefonica e istituzioni finanziarie italiane). Abbiamo detto che alle condizioni delineate ieri da Sawiris sarà molto difficile trovare una risposta favorevole dagli attuali azionisti; forse ci potrebbe essere un interesse a un aumento di capitale se avvenisse a un premio sensibile sulle quotazioni di borsa attuali, ma al momento l’unica espressione di interesse ricevuta, quella appunto di Sawiris, sembra non avere le caratteristiche minime per essere oggetto di una vera trattativa.
Per capire però cosa possa accadere da qua in avanti bisogna concentrarsi proprio sugli azionisti di Telco (Generali, Intesa Sanpaolo, Mediobanca e Telefonica), la holding che detiene il 22,4% di Telecom. Quelli italiani non possono uscire a questi prezzi e vogliono limitare i danni sia rispetto al prezzo d’entrata (poi svalutato nei bilanci) che a quello, deprimente, di oggi; occorre poi ricordare che erano stati “chiamati” per garantire l’italianità del gruppo e che in caso di uscita dall’azionariato il problema dell’italianità si porrebbe di nuovo. A Telefonica, presumibilmente, non interessa nulla dell’italianità, mentre interessa salvaguardare la propria presenza in Sud America. L’ipotesi di intervento della Cassa depositi e prestiti in Telecom Italia si inserisce proprio in questo contesto. L’intervento potrebbe avvenire o a livello di Telco, con l’acquisto di azioni Telecom direttamente dai soci attuali, oppure, come più probabile, con l’acquisto di una quota della rete Telecom.
La prima ipotesi è complicata per motivi di immagine (un’eventuale premio sensibile rispetto alle quotazioni attuali sarebbe difficile da giustificare), per probabili difficoltà a livello europeo e di rispetto della concorrenza. La seconda ipotesi, invece, sembra sempre più prendere piede. La difesa dell’italianità sarebbe assunta direttamente dalla Cassa con una partecipazione nella rete che verrebbe comprata probabilmente a valutazioni interessanti per il venditore (Telecom Italia). Questo avrebbe due conseguenze: la prima è che la cessione, come detto a prezzo interessante, libererebbe risorse per Telecom a probabile vantaggio dei prezzi di borsa (andando incontro a una delle esigenze di chi ha comprato il titolo due euro fa); la seconda è che l’investimento di Cdp libererebbe gli azionisti finanziari dallo scomodo ruolo di difensori dell’italianità dando mani libere per la dismissione della partecipazione.
A questo punto le azioni di controllo sarebbero disponibili per chiunque intravedesse un’opportunità di creazione di valore finanziario o industriale o “strategico” o una combinazione di questi. Al “sistema Italia” rimarrebbe una partecipazione di minoranza nella rete, utile per porre diritti di veto, molto meno probabilmente per esercitare un ruolo di impulso o controllo attivo.
Fatte salve le solite sottolineature di rito sulla neutralità dei mercati finanziari e degli investitori, i principi di creazione di valore per gli azionisti, gli effetti nefasti dei limiti posti alla libera circolazione dei capitali, ecc., bisognerebbe chiedersi se in economie simili alla nostra – Germania e Francia per dire due nomi a caso (i paragoni con i sistemi anglosassoni non sono sensati) – una soluzione di lungo periodo di questo tipo sarebbe ritenuta accettabile e soddisfacente ed eventualmente perché.