Il risultato delle elezioni Usa ci dice che il presidente continuerà a essere Barack Obama, come da attese. Inutile dire che le riflessioni sugli impatti economico-finanziari di queste votazioni continuano da mesi, non foss’altro perché gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza economica del pianeta e perché dall’inizio della crisi il ruolo della Fed è stato più volte determinante per i destini dell’economia globale.



Le conseguenze della rielezione di Obama sono molteplici e riguardano settori e aspetti diversissimi del panorama economico. La prima considerazione d’obbligo è che, a prescindere dai diversi programmi, la rielezione di Obama porta di per sè un bene in questi giorni scarso sui mercati e cioè aggiunge un minimo di certezze su mercati già alle prese con una serie di infiniti e odiati elementi di incertezza che nei mesi scorsi si sono spinti “perfino” sul terreno della sopravvivenza delle valute. Romney si sarebbe dovuto affrettare a stemperare i toni anti-cinesi o iraniani da campagna elettorale o a rintuzzare i timori che i mercati avrebbero avuto su un cambio alla Fed. In questo senso la rielezione di Obama in quanto tale è un elemento positivo per i mercati almeno nel breve periodo.



Solo dopo questa premessa si può iniziare la riflessione sui problemi economici americani e su come Obama potrebbe tentare di risolverli. I problemi sono due e non sono molto dissimili da quelli che sta affrontando l’Europa: come promuovere la crescita e diminuire il debito pubblico. È un fatto che sotto Obama la Fed abbia adottato una politica monetaria espansiva e che sia sempre intervenuta in soccorso dei mercati finanziari quando necessario. Le critiche di Romney al lancio di un terzo quantitative easing non sono piaciute ai mercati, mentre i programmi di Romney prevedevano più tagli e in minore tempo al budget federale di quanto prevedano quelli di Obama.



La sensazione è che Obama tenterà di limitare il più possibile i danni del riequilibrio dei conti pubblici che nemmeno l’America può evitare. L’ormai mitologico “fiscal cliff” e le sue conseguenze sull’economia americana sono oggi al centro delle preoccupazioni degli investitori. Su questo tema le cose si complicano ulteriormente; non è solo una questione di Obama-Romney, ma anche di maggioranze “parlamentari” e autorità presidenziale. Una vittoria risicata o un congresso spaccato, anche dopo l’elezione di Obama, potrebbe impedire di ottenere un accordo rapido ed efficace per evitare il fiscal cliff tenendo magari i mercati con il fiato in sospeso per qualche settimana sui destini finanziari degli Stati Uniti. 

L’ultimo “macro-tema” riguarda la cosiddetta riforma di Wall Street o meglio le norme che potrebbero essere introdotte per cambiare i meccanismi profondi che regolano i mercati finanziari americani. È indubbio che almeno all’inizio del suo mandato Obama abbia provato, anche con la consulenza dell’ex presidente della Fed Volcker (nominato consulente del presidente proprio da Obama), a limitare alcune delle prassi finanziarie che hanno giocato una parte centrale nell’origine della crisi. La Volcker rule, per esempio, che poneva limiti sostanziali alle banche su alcune attività speculative è del gennaio 2010. In questo senso Romney appariva più amichevole di quanto lo sia Obama nei confronti di “Wall Street”. 

È probabile però che Wall Street abbia preferito essere sicura di una politica espansiva prendendosi qualche minimo rischio dal lato regolamentare; minimo rischio perchè Obama in questo senso è stato limitato molto bene e perchè potrà esserlo ancora in futuro da mercati e istituzioni finanziarie ben lontani dalle condizioni pietose di fine 2008 e inizio 2009, quando si è aperta probabilmente l’unica fase vera in cui si poteva pensare di riformare realmente la finanza. L’endorsement del Financial Times di qualche giorno fa per Obama è da questo punto di vista emblematico e indica che i timori di una riforma della finanzia “punitiva” o anche solo sostanziale sono minimi. 

Tra i vari temi “settoriali” che le elezioni hanno sollevato dalla spesa per la difesa, alla riforma sanitaria, passando per le energie rinnovabili, le tasse sui redditi alti e le plusvalenze finanziarie, su cui non c’è per la verità molto di incerto, uno in particolare desta interesse. Ieri, per esempio, il petrolio è salito di un rotondo 3%, probabilmente dando il primo vero “exit poll” sull’esito elettorale. Due elementi a questo riguardo legano Obama al rialzo dell’oro nero: il primo è sulle maggiori speranze in un terzo quantitative easing che, come da copione, spinge al rialzo tutte le commodities (anche l’oro ha festeggiato ieri), il secondo è sulle politiche energetiche di Romney che spingevano per l’indipendenza energetica del continente (Stati Uniti, Canada e Messico) e che avrebbero spinto sull’estrazione di petrolio e su una minore dipendenza dalle aree “calde” del pianeta. 

In ogni caso il risultato di oggi non risolve neanche la metà delle domande e dei dubbi che il mercato ha sui destini economici americani del prossimo anno e su come e se l’America riuscirà a trovare una via sostenibile per uscire dalla crisi e per risolvere i problemi di deficit, soprattutto in un mondo in cui l’Europa rimarrà un’incognita e un elemento di instabilità e crisi anche per i prossimi anni (chiedere alla Merkel perché). Data per persa l’Europa per i prossimi cinque anni per stessa ammissione del suo leader politico (sempre la Merkel) la vera domanda è se gli Stati Uniti riusciranno a sganciare la propria economia dai destini nefasti di quella europea, Germania esclusa; è questa probabilmente la vera sfida che aspetta gli Stati Uniti di Obama.