Lo spread Btp-Bund ha reagito al downgrade di Moody’s di lunedì sera addirittura con una variazione di 0,5 punti (in miglioramento). La cronaca della giornata di ieri è proseguita con un dato inferiore alle attese sulle vendite retail negli Stati Uniti che faceva aprire la borsa americana con un rotondo -0,2%, mentre il dato superiore alle attese sulla fiducia degli imprenditori tedeschi faceva festeggiare la borsa di Francoforte con un -0,3%. La derelitta borsa italiana chiudeva con un +0,5%. Non esattamente una giornata emozionante in una fase in cui sui mercati le idee forti sul futuro non sembrano abbondare tra crisi greche e dell’euro e assunzioni sulla crescita in Europa e negli Stati Uniti. La giornata quindi si avviava alla conclusione quando alle 18:00 sugli schermi compariva la notizia che la Fondazione Mps autorizzava la cessione del 15% della banca a “partner strategici”.
La notizia di ieri dimostra un fatto: tra i molti motivi per cui vale la pena osservare da vicino le evoluzioni dei rendimenti del debito statale italiano rientra anche il futuro del sistema bancario. Oltre agli evidenti effetti sullo stato patrimoniale delle banche che il peggioramento o il miglioramento dello spread comportano ci sono conseguenze sull’assetto dello stesso sistema bancario italiano. Per essere più chiari: finchè lo spread sta a 550 e le ipotesi di un fallimento dell’Italia o della sua uscita dall’euro rientrano tra le eventualità probabili è difficile ipotizzare una folla di potenziali compratori disposti a pagare per scommettere sulle banche e indirettamente sull’economia italiane. È verosimile che a 370 quanto meno si riinizi a fare qualche conto e che magari qualcuno pensi seriamente di farsi avanti. L’attuale capitalizzazione delle principali banche quotate non spaventa più come tre anni fa (l’operazione sarebbe molto meno impegnativa da un punto di vista finanziario), mentre, a parte qualche eccezione, l’azionariato di buona parte delle banche italiane non sembra esattamente a prova di bomba, a partire da Unicredit, i cui azionisti storici controllano meno del 15% del capitale.
Sicuramente sono tutte suggestioni oltre tutto premature e inopportune, dato il difficile e complicato quadro macroeconomico, ma “qualcosa” si comincia a vedere, in attesa di sapere quali siano i partner strategici di Mps. Risulta a questo punto impossibile non citare il principale quotidiano economico europeo che ieri, con un’invidiabile e incredibile coincidenza, dedicava la mitica lex column proprio agli assetti proprietari di banca Monte Paschi. Con un giro di parole, il Financial Times apriva in questo modo: “Sottocapitalizzate, non performanti e non volute. È tempo che le banche italiane più piccole trovino partner forti”.
Il fatto che il Monte Paschi sia la terza banca italiana per numero di sportelli e che quindi praticamente ci si riferisca a tutto il sistema bancario italiano con l’esclusione di Intesa e Unicredit non sembra secondario. Il secondo giro di parole con cui il FT conclude il proprio spunto è che la fusione con una banca straniera, si parla di Mps (davvero non riusciamo a smettere di rilevare l’incredibile coincidenza), potrebbe dare alla banca italiana una dimensione più opportuna e “introdurre gli italiani alla competizione bancaria”.
Le questioni che vengono a questo punto in mente sono diverse. La prima è l’opportunità che il sistema bancario italiano sia riorganizzato dall’esterno senza alcun tipo di regia grazie al provvidenziale e pieno di intenti caritatevoli intervento di partner esteri. È inutile dire che il sistema bancario e i risparmi sono strategici, soprattutto in una fase come l’attuale e soprattutto in un Paese in cui la risorsa risparmio è ancora abbondante. È inutile anche ricordare che non ci risultano casi di economie sviluppate dove sia possibile fare e disfare a piacimento con le banche locali. Tanto per rendere l’idea, qualche settimana fa le istituzioni tedesche (quindi della prima economia d’Europa) si sinceravano che Hvb non trasferisse liquidità in Italia, mentre non si riesce proprio a smettere di credere che a Francoforte farebbero molto volentieri a meno di avere in casa una banca italiana.
La seconda questione è il dogma della dimensione come unico requisito per competere. Dopo il fallimento di Lehman sarebbe consigliabile un approccio più laico al tema, dato che si è dimostrato che poche istituzioni grandissime sono decisamente e intrinsecamente più rischiose di tante istituzioni più piccole e che magari fanno mestieri diversi.
Lasciamo per ultima la questione più “divertente”, e cioè l’apporto imprescindibile che i partner esteri potrebbero magicamente dare al sistema italiano. Tralasciamo ovviamente l’ipotesi, inconcebile nel mondo reale, che una banca italiana faccia un’opa su una francese. Vogliamo qui ricordare i fulgidi esempi di creazione di valore di Northern Rock, nazionalizzata, o di Royal bank of Scotland, posseduta all’84% dal governo inglese, oppure il buco da 5 miliardi di euro che un singolo trader ha provocato a SocGen. Possiamo passare in rassegna le cifre astronomiche con cui gli Stati Uniti hanno salvato i propri campioni della finanza stendendo un velo pietoso sul destino di Fannie Mae e Freddie Mac, oppure sollevare il tema delle somme che il governo tedesco ha iniettato nel sistema bancario, finendo per parlare dei mutui concessi dalle banche spagnole che hanno alimentato un boom immobiliare che si sgonfierà, forse, nei prossimi dieci anni. Le antiquate, provinciali banche italiane, certamente migliorabili hanno passato indenni periodi abbastanza difficili con una manciata, letteralmente, di miliardi di euro di aiuti statali. Unicredit ha chiuso l’aumento di capitale sul mercato mentre lo spread viaggiava a quota 400.
Ci risulta, infine, che la concorrenza e la competizione siano un “rischio” maggiore in un mercato con più operatori diversi piuttosto che in uno con pochi operatori simili. Tra tutti gli scenari a cui ci si può preparare oltre a quelli apocalittici, dove, per la cronaca, l’unico investimento sicuramente buono è una casa in campagna e un fucile, meglio prepararsi anche a quelli “buoni” dove lo spread scende e l’Italia, dopo tutto, non era così male, o almeno non così male da non suscitare qualche appetito.