La notizia finanziaria di ieri non è, come si potrebbe pensare, l’ulteriore calo dello spread (per la cronaca siamo a 290 punti base), o il tonfo dell’oro (siamo a 1650 dollari) o quello dell’euro (ultimo dato del cambio col dollaro: 1,30); la notizia “finanziaria non-finanziaria” di ieri è contenuta in un editoriale pubblicato dal New York Times. Questo quotidiano non proprio marginale che ha sede nella città di Wall Street ha deciso di pubblicare come editoriale la lettera di dimissioni dell’ormai ex responsabile dei derivati in Europa, Medio Oriente e Africa di Goldman Sachs (titolo: “Why i am leaving Goldman Sachs”).

La lettera è corrosiva oltre ogni immaginazione. Per farla breve, Greg Smith, questo il nome del top manager di Goldman, sostiene “solamente” che: a) ai dipendenti di Goldman Sachs interessa solo fare soldi per la società (e indirettamente per se stessi) indipendentemente dai reali interessi dei clienti; b) Goldman Sachs ha consigliato ai propri clienti prodotti sbagliati se non nocivi pur di liberarsene e farli uscire dai propri bilanci. Greg Smith, che ha lavorato in Goldman Sachs per dodici anni, ritiene che la regina indiscussa delle banche d’affari si sia dimenticata della cultura, che Smith aveva conosciuto da neo assunto, di servizio alle esigenze dei clienti; una cultura sostituita dalla ricerca del profitto indipendentemente dalle reali necessità, appunto, dei clienti. La conclusione del top manager è che questa “nuova cultura” porterà la banca all’autodistruzione; le implicazioni personali sono le ovvie dimissioni per motivi morali.

Inutile dire che una lettera di questo tipo, pubblicata su quel quotidiano in una fase come questa è clamorosa, per usare un eufemismo, a prescindere da qualsiasi giudizio si voglia esprimere sul contenuto. Accusare la più grande banca d’affari del globo di non fare gli interessi dei propri clienti è da un certo punto di vista paradossale. Le reazioni possibili sono ovviamente molteplici. Si va da un sostanzialmente “santo subito” senza se e senza ma a quelle più ciniche di chi si chiede cosa abbia fatto, dove sia stato e soprattutto quanto abbia già guadagnato Greg Smith negli ultimi anni (l’accusa nemmeno troppo velata in questo caso è di ipocrisia, soprattutto se l’ex Goldman si potrà ritirare in un buen retiro con dodici anni di paghe e bonus “Goldman style”); a queste si aggiungono le interpretazioni dietrologiche di ogni ordine e grado sui motivi reali, oltre a quelli apparenti, delle singolari modalità scelte per comunicare le ragioni delle proprie dimissioni, incluse supposte difficoltà del gigante dell’investment banking di cui Smith sarebbe a conoscenza. Last but not least (per rimanere in tema), l’osservazione che in realtà le critiche valgano per molta parte della finanza universale di cui Goldman è l’esempio più preclaro.

Il merito indubbio di questa lettera di dimissioni/confessione è quello di riaccendere il dibattito sulla situazione in cui versa la finanza. Il tema, come è comprensibile, è di portata enorme e non può essere affrontato in modo esaustivo in poche righe. Greg Smith parla di una cultura aziendale suicida che nel lungo periodo determinerebbe la perdita dei clienti e inevitabilmente la fine della banca, ma qualcosa sfugge se Goldman Sachs è ancora viva e vegeta nonostante stia, a detta di Smith, servendo male i propri clienti tra cui alcuni dei fondi più importanti del globo e nonostante abbia, si presume, molti concorrenti disposti a sostituirla.

Rimane poi aperta la riflessione su cosa e perché possa riportare una cultura sana a Goldman e in generale nella finanza in un mondo in cui i bonus sono un multiplo dello stipendio con le inevitabili conseguenze sulla propensione al rischio. Le regole interne, i codici etici o di comportamento che tutti ovviamente sposano e sottoscrivono sembrano una misera foglia di fico che non cambia la sostanza del problema.

Non è nemmeno del tutto corretto parlare di una cultura suicida che porterebbe al fallimento dopo che dal collasso di Lehman in poi la Fed è stata “costretta” a salvare la finanza a colpi di iniezioni di liquidità. Il sistema in un certo senso era già fallito e la stessa Goldman nell’autunno 2008 aveva visto i mercati massacrare il proprio titolo senza pietà. Nel frattempo i soggetti in campo sono diventati di meno e ancora più “big to fail”.

Il dibattito come minimo dovrebbe vertere su due punti. Se i meccanismi di incentivo siano ancora validi perché allineano l’interesse del dipendente a quello della banca (ma è singolare che il collegamento avvenga solo quando le cose vanno bene) e se non sia il caso di ridurre il rischio endemico diminuendo attività e dimensioni delle banche d’affari distinguendole poi nettamente da quelle commerciali. I segnali non sono confortanti anche se, occorre ammetterlo, mai ci saremmo aspettati di leggere un tale singolare editoriale sul New York Times