Dopo una settimana di pressioni, l’amministratore delegato di Barclays, Bob Diamond, ha rassegnato ieri le proprie dimissioni a seguito della multa da 290 milioni di sterline che la banca ha dovuto pagare per aver manipolato il Libor (London Interbank Offered Rate). Per rendere l’idea del clima che si respirava intorno a Diamond basta rileggere le parole con cui il Financial Times del 28 giugno concludeva la lex column dedicata all’ormai ex ad consigliando caldamente e senza alcun giro di parole le dimissioni (“Indipendentemente dalla sua capacità operativa, Mr Diamond è diventato un ostacolo per il valore del titolo della banca. Altri manager si sono dimessi per molto meno”).

La vicenda che ha condotto ai fatti di ieri e che è tuttora in corso con esiti certamente non conclusi e imprevedibili riguarda la manipolazione dell’indice Libor, equivalente del nostrano Euribor, che tra le altre cose è il tasso riferimento per centinaia di miliardi di dollari di attivi tra cui crediti, mutui, swap, derivati, ecc. In particolare, Barclays ha manipolato le proprie indicazioni giornaliere sul Libor, che finiscono alla “British Bankers’ Association”, durante il periodo della crisi (quella di Lehman) per evitare che un tasso eccessivamente elevato segnalasse agli operatori una situazione critica con le inevitabili conseguenze sulla percezione che il mercato avrebbe avuto sulla sicurezza e affidabilità della banca; più una banca è considerata solida più basso sarà il tasso a cui le prestano i soldi e viceversa secondo la stessa dinamica per cui lo Stato tedesco oggi paga un tasso che è meno della metà di quello italiano.

La trascrizione di alcune mail scambiate tra membri del mercato e della banca segnala anche pratiche motivate da ragioni meno “sistemiche” e più, come dire, “opportunistiche”. Tra queste segnaliamo quella in cui un trader esterno a Barclays chiede a un dipendente della banca inglese di segnalare un Libor a tre mesi più basso del precedente e, esaudito, promette di ricambiare con una bevuta post-lavorativa a base di Bollinger (champagne giusto un filo più caro di una familiare di Peroni gelata).

Se la vicenda si limitasse al cattivo comportamento di qualche trader infedele o particolarmente avido probabilmente il flusso di articoli e commenti si sarebbe già interrotto da un pezzo. Il problema è che sembra possibile non solo il coinvolgimento di altre primarie istituzioni finanziarie anglosassoni (americane incluse) che si sarebbero comportate, in una sorta di segreto di pulcinella, allo stesso modo di Barclays, ma anche del numero due della banca centrale inglese, Paul Tucker. A latere di questa vicenda che, ribadiamo, è lungi dall’essere conclusa, si possono ricavare due considerazioni facili facili.

La prima è sulla superiorità “morale” con cui la finanza british ha osservato il meschino universo bancario italiano. Meno di sei mesi fa lo stesso Financial times scriveva in una lex column sulle banche italiane le seguenti frasi: “Sottocapitalizzate, non performanti e non volute. È tempo che le banche italiane più piccole trovino partner forti” e ancora meglio, si parlava di Mps, una fusione con una banca straniera potrebbe dare alla banca italiana una dimensione più opportuna e “introdurre gli italiani alla competizione bancaria”. Quale competizione bancaria? Quella in cui si falsificano gli indici e si mente al mercato sistematicamente e per anni per avvantaggiare anche singoli trader?

La seconda considerazione si unisce alle perdite miliardarie che alcuni trader di JP Morgan hanno causato operando sui derivati tre mesi fa. Posto che è impossibile eliminare del tutto comportamenti sbagliati e che questi si possono accidentalmente verificare anche nella migliore delle istituzioni, sembra sia arrivato il momento di riformare il sistema finanziario cercando di diminuirne i rischi intrinseci, per esempio con la separazione tra banche commerciali e di investimento che lasci i risparmiatori e le imprese più al riparo da shock finanziari e speculazioni. Di fronte a fatti di questa portata che si verificano a distanza di ormai quattro anni dal fallimento di Lehman diventa sempre più difficile evitare che le discussioni “degenerino” in qualche cambiamento di fatto, anche perché le ripercussioni sull’economia reale di certi scivoloni finanziari sono sempre più evidenti.

Nel frattempo, come ben testimoniato dall’ingresso di Pamplona capital management in Unicredit, rimane viva la questione della vulnerabilità del sistema bancario italiano nel frangente attuale; un tema di importanza capitale su cui è più che opportuno tenere alta la guardia.