Dato che è impossibile alzare ancora le tasse, dato che i tagli alla spesa pubblica inefficiente sono molto facili a dirsi e evidentemente poco a farsi e dato che vendere azioni di società quotate è molto facile, l’ultima tentazione in tema di abbattimeno del debito è diventata la cessione delle partecipazioni statali. Per la verità da più parti si favoleggia delle decine di miliardi di euro che si potrebbero incassare con la cessione degli immobili pubblici ma sul tema è lecito coltivare qualche cautela. I numeri che vengono sparati normalmente a questo riguardo fanno impressione; si parla tranquillamente di immobili per centinaia e centinaia di miliardi di euro e di cessioni facili facili per qualche decina (tutta l’industria dei fondi immobiliari in Italia gestisce meno di 30 miliardi). Cosa finisca nei conti proposti è la prima domanda che bisognerebbe farsi, dato che immobili a valore storico o artistico difficilmente si prestano a un uso che un privato possa trovare di immediato interesse. Gli immobili a uso uffici magari brutti e in periferia non sembrano particolarmente appetibili in una fase in cui lo sfitto non manca; a meno che lo Stato non si vincoli a pagare un affitto sugli immobili che cede ma sinceramente non sembra un’operazione particolarmente lungimirante. L’unica opzione che rimarrebbe sarebbe probabilmente qualche operazione di sviluppo immobiliare (le caserme in centro da trasformare in residenza per esempio), su cui l’interesse dei privati si potrebbe manifestare ma le opposizioni che di norma si levano contro la cementificazione e le lungaggini burocratiche non permettono i tempi brevi che servirebbero e in più gli importi sarebbero una frazione di quelli sbandierati. Occorrerebbe poi spiegare chi siano i privati disposti a tirare fuori decine di miliardi di euro con i costi sui finanziamenti che oggi si pagano in Italia.
Per questo quando si parla di cessione del patrimonio pubblico, soprattutto nel breve, si parla in realtà solo di cessione di società industriali e in particolare di società industriali quotate: Eni, Enel, e Finmeccanica oltre a Terna e Snam. 



Le indiziate di cessione sono le prime tre. Eni è posseduta al 26,4% dalla Cdp e al 3,95% dal ministero dell’Economia per un valore complessivo delle partecipazioni di quasi 20 miliardi di euro; la partecipazione del 31,2% in Enel del ministero dell’Economia vale circa 8 miliardi di euro mentre quella del 32,5% in Finmeccanica poco più di 700 milioni di euro. Siamo a circa 30 miliardi di euro o circa l’1,5% del debito pubblico italiano o 500 euro per italiano. Anche ipotizzando un premio sulle quotazione attuali, la sostanza non cambierebbe di molto. Eni ed Enel distribuiscono dividendi regolari per un rendimento di circa il 5/6%, sostanzialmente equiparabile al costo che lo Stato italiano paga oggi sul decennale. Ma oltre ad essere un’operazione che finanziariamente desta qualche perplessità, ciò che è difficile mettere nell’equazione costi – benefici di una tale cessione è l’impatto sul sistema Paese.
Per capire di cosa si tratti si può ricordare la reazione che un nostro immediato vicino/concorrente – la Francia -, ha avuto quando Enel ha provato a comprare Suez, oppure – è notizia di questi giorni – all’opposizione che la stessa Francia sta facendo al progetto di Snam e Fluxys di costruire un gasdotto che colleghi Nord e Sud Europa. Eni è strategica per un Paese che consuma gas a tutto spiano senza materie prime e senza nucleare, e fa tutta la differenza del mondo, in mancanza di peso politico, quando l’Italia si siede al tavolo delle trattive, a qualsiasi titolo, con i Paesi produttori che devono decidere a chi far costruire ponti o ferrovie o da chi comprare beni e macchinari o infine a chi vendere gas e petrolio (c’è ancora la fila nonostante tutto). Per non rendersi conto della perdita clamorosa per l’indipendenza energetica e per lo sviluppo economico italiano bisogna essere ciechi; non bisogna poi dimenticare che Eni controlla Saipem, sicuramente una delle massime espressioni, non solo per dimensioni, dell’ingegneria italiana. 



Ragionamento simile si può fare con l’Enel da cui, tra l’altro, i governi precedenti sono passati con Robin Hood tax e simili per incrementare gli incassi e a cui si rivolgono quando si tratta di mettere i soldi e investire per progetti sistemici come, per fare un esempio, i rigassificatori che nessuno vuole ma di cui non si può fare a meno. Finmeccanica, da ultimo, oltre a essere attiva nel settore sensibile della difesa, controlla alcune imprese che molti, non a caso e non per sbaglio, ci invidiano: da Ansaldo Sts, passando per Avio e Agusta Westland. Siamo certi che diverse società sarebbero disposte a strapagare per mettere le mani su tecnologia e avviamento ma come per Eni e per Enel il punto è che nessuna di queste società è replicabile o sostituibile. Evitare un mese di emissioni di bond statali o ridurre il rapporto debito/ Pil da 126 a 124 rinunciando per sempre a imprese dall’elevatissimo contenuto strategico e tecnologico e probabilmente anche con il timing sbagliato, non sembra un grande affare: chi arriva non è tenuto a mettere tra le priorità lo sviluppo economico italiano.
Mai come in questi mesi è stato chiaro che le valutazione del “mercato” o dei partner europei non sono solo una conseguenza di valutazione macro-economiche o sui fondamentali di un Paese e che spesso chi non ha abbastanza peso economico e politico rischia di vedersi penalizzato molto oltre le proprie colpe. Rinunciare a qualsiasi ambizione da protagonista sullo scenario economico globale e ridursi nei fatti a terra di conquista non è una grande trovata economica nonostante le decine di articoli che proclameranno l’inevitabilità e gli innumerevoli vantaggi delle privatizzazioni dimenticando i “successi” incredibili degli ultimi dieci anni. Ovviamente escludiamo qualsiasi tipo di malafede e i dubbi che potrebbero sorgere sui guadagni – questi sì sicuramente privatizzati – che un tale processo comporterebbe per acquirenti, consulenti e banchieri d’affari. 

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