La non notizia degli ultimi giorni su Fiat e dintorni è una dichiarazione della casa di Torino con cui si definisce il progetto Fabbrica Italia, quello che prevedeva 20 miliardi di investimenti in Italia, superato alla luce della crisi economica e delle mutate prospettive dell’economia. Il progetto era stato annunciato nel 2010 e da allora è stato usato in lungo e in largo come metro di giudizio per commentare le scelte industriali che Fiat decideva di fare in Italia.
La notizia non è tale per una serie infinita di ragioni. Già alla data dell’annuncio il numero di 20 miliardi era buono per finire nei titoli di giornale, ma risultava molto meno avvincente per chi avesse a che fare con i numeri del gruppo e sul mercato degli investitori la cifra era finita tra le cose di cui è meglio occuparsi per ultime; la realtà dei fatti, quella su cui tutti si misuravano, era quella di un gruppo poco incline a investire in Italia, da cui si levavano grida di preoccupazione per l’andamento del mercato europeo e tutto teso al mercato nordamericano. La crisi profonda degli ultimi anni non ha di certo fatto cambiare la situazione.
Per rendere meglio l’idea valga per tutti la dichiarazione del ministro dell’economia Passera secondo cui: “Che il piano Fabbrica Italia fosse inattuale è un dato noto già da diverso tempo”. Ma il comunicato stampa di Fiat dice un’altra cosa: “Vale la pena di sottolineare che la Fiat con la Chrysler è oggi una multinazionale e quindi, come ogni azienda in ogni parte del mondo, ha il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia, pensando in primo luogo a crescere e a diventare più competitiva.” La conseguenza è facile facile e cioè essendo Fiat una multinazionale globale che si appresta anche a cambiare sede non è soggetta ad alcuna tutela speciale da parte di alcuno Stato, Italia inclusa.
Il dibattito sulla opportunità o meno di questo smarcamento dall’Italia e di questa rivendicazione di autonomia è molto interessante, ma i fatti non cambieranno né per gli articoli o i commenti indignati, né solo per le pressioni del governo tanto più in una fase di questo tipo e tanto più essendo l’Italia membro dell’Unione Europea e poco incline, fortunatamente, ad avviarsi su strade venezuelane. Anche le riflessioni sulle ragioni per cui Fiat non è Volkswagen sono importanti ma non risolvono il problema attuale.
Le domande più appassionanti sono però probabilmente altre: la prima e se veramente Fiat non può competere con una presenza industriale così massiccia in Italia, la seconda è se l’Italia possa fare qualcosa per far ricredere Fiat. Volkswagen dimostra che è ancora possibile produrre auto con una presenza forte in un Paese sviluppato ma è anche vero che i problemi di Fiat sono quelli del settore auto francese. Ridurre il gap competitivo che c’è tra Fiat e Volkswagen richiederebbe tanto tempo e soprattutto tantissimi soldi; in una fase come l’attuale lanciarsi in un programma di investimenti “monstre” sarebbe un salto nel buio probabilmente da irresponsabili.
Quello che si può ragionevolmente ottenere da Fiat, come giustamente chiesto sia dai sindacati (Bonanni) che dal governo (Fornero e Passera) è avere da Marchionne una risposta chiara sulle intenzioni di Fiat ed eventualmente su cosa può fare il governo per assicurare il più alto numero di occupati se non altro per sapere se i soldi spesi per eventuali interventi dedicati non possano essere spesi più utilmente in altri settori.
Probabilmente però quello che è in gioco è un cambio “culturale” radicale in Italia; un cambio per cui il problema diventa come attrarre, favorire e mantenere imprese industriali sul suolo italiano. Competere con una legislazione del lavoro rigida, costi dell’energia più elevati, una burocrazia asfissiante, tasse record in Europa e oggi anche costi del debito superiori è impossibile. Sul basso di gamma la competizione è già stata persa in favore dei Paesi in via di sviluppo ma su tutto il resto la partita da giocare è ancora apertissima e sempre la Germania dimostra che un vero e sostenibile sviluppo economico non può prescindere da una forte base industriale.
Il dibattito di questi giorni grazie all’azienda industriale italiana per definizione diventa utile solo se si pongono le domande giuste altrimente tutto si riduce al solito noiosissimo scambio di accuse con Fiat. I margini di manovra con Fiat esistono perché smantellare impianti costa, fare figuracce anche soprattutto se il problema smette di essere la competitività dell’Italia. Altrimenti poi non si spiegherebbe il motivo per cui la multinazionale globale Fiat cerca un accordo in Europa sulla riduzione di capacità nel continente a cui la Germania con le sue multinazionali altrettanto globali risponde picche. Immaginiamo poi che gli Agnelli non abbiano interesse a una guerra con l’Italia e che l’Italia a sua volta abbia il problema di come far sopravvivere le proprie imprese. In una fase in cui tutti si concentrano su Fiat e Marchionne probabilmente invece occorerebbe spostare l’attenzione sul governo italiano che nonostante tutto ha tante leve sia generali che particolari sia con le buone che con le cattive per impedire l’abbandono di Fiat, tanto più se lo “spread” smette di essere l’unico problema.