Anche quest’anno, come da tradizione, sono arrivati gli aumenti dei pedaggi autostradali (in media del 2,91%) con variazioni che sembrano irreali dato lo scenario economico che si sta vivendo in Italia (per esempio, l’incremento del 13,55% per il Passante di Mestre o del 14,44% per il Raccordo autostradale della Valle d’Aosta). Dopo lo shock iniziale arrivano di solito le domande sui criteri con cui vengono decisi gli aumenti e su quale sia il mistero che avvolge tutto il processo. La vicenda è molto spinosa, anche perché le società autostradali sono possedute da società quotate in borsa (Atlantia e Sias su tutte) che gestiscono e possiedono concessioni di durata molto lunga, che devono rispondere oltre agli azionisti di maggioranza a investitori istituzionali e piccoli azionisti.



Dicevamo del difficile quadro economico italiano che si può rilevare, tra l’altro, da numerose statistiche; una delle più significative riguarda proprio i dati sul traffico dei veicoli leggeri e pesanti sulle autostrade italiane, in calo rispettivamente nei primi otto mesi dell’anno del 7,3% e del 7,1% (fonte: Aiscat). Il dato segnala senza alcun dubbio la difficilissima situazione economica in Italia che ha inciso inevitabilmente anche sull’uso della macchina e dei veicoli industriali. È in questa situazione che si assisterà all’ennesimo rincaro dei pedaggi autostradali in percentuali che in realtà sono già da tempo facilmente prevedibili e previste e che in molti casi si trovano disponibili tratta per tratta, concessione per concessione nelle presentazioni che le società quotate preparano per analisti e investitori.



Per svelare il mistero occorre partire dal presupposto che non solo i costi sostenuti dai concessionari devono essere pagati con i pedaggi, ma anche gli investimenti fatti devono essere remunerati con un tasso di rendimento “congruo” e predefinito (lo “schema tariffario” è regolato dalla concessione stipulata con lo “Stato”). Nel caso di Atlantia, per esempio, gli investimenti del piano 2002 sono remunerati a un tasso del 7,2% post-tasse, un tasso di remunerazione che oggi è ragionevole supporre sia anche sensibilmente superiore. Gli investimenti e i costi sono remunerati appunto con i pedaggi, ma se il traffico cala e il rendimento deve rimanere costante, allora sono i pedaggi che devono aumentare; se si vendono meno “prodotti” (in questo caso i chilometri percorsi). per mantenere costanti i ricavi si aumentano i prezzi (le tariffe).



Per la cronaca è inevitabile notare che oggi il decennale italiano rende circa il 4,5% e i bond corporate poco di più e che quindi il rendimento, tanto più per un’attività con un rischio inferiore alla media, sembra davvero generoso. Questa considerazione però ha poche conseguenze pratiche; infatti se lo Stato italiano, sempre ammesso che ciò fosse possibile date le regole europee, decidesse d’ufficio di cambiare unilateralmente i termini della concessione, provocherebbe conseguenze imponderabili, in senso negativo, sulla propensione agli investimenti nel Paese, visto che la certezza del quadro delle regole è considerata un requisito prioritario.

Eppure, tutto il processo si presta a più di qualche critica non fosse altro per il fatto che un’autostrada è in moltissimi casi un monopolio di fatto, anche perchè è davvero difficile sostenere che passare per la viabilità ordinaria possa essere un’alternativa simile o equivalente.

A questo punto il dibattito si dovrebbe spostare su due livelli. Il primo riguarda il futuro e cioè se questo schema generale di gestione delle autostrade sia proprio il più conveniente per i cittadini e per lo Stato e se, sempre per le concessioni future, si debbano introdurre delle modifiche su quali punti e in che misura. Il secondo riguarda le concessioni in essere; a questo riguardo gli spazi di manovra non sembrano illimitati, ma qualche rilievo si potrebbe avanzare sull’efficienza degli operatori in termini di costi di gestione, sulla reale esecuzione dei lavori e degli investimenti e infine sul loro costo, soprattutto se non affidati a parti terze.

Oggi l’unica via per sperare in un aumento più contenuto delle tariffe è una ripresa del traffico, dato che l’inflazione (altro elemento considerato per gli aumenti) difficilmente diminuirà nel breve-medio termine. Almeno su questo punto è difficile immaginare che non ci sia una convergenza di interessi.