Uno studio pubblicato da “Ricerche & Studi” di Mediobanca ha evidenziato che la borsa italiana negli ultimi dieci anni è stata la seconda peggiore del pianeta dopo quella greca. Essere davanti alla Grecia in questa classifica è ovviamente una magrissima consolazione se si considera che nello stesso periodo (da dicembre 2002 al 16 ottobre scorso) la borsa italiana ha perso il 5,6% mentre quella tedesca ha guadagnato il 129%, quella di Londra l’85%, e quelle di Madrid e Parigi il 59% e il 55% rispettivamente. La performance economica italiana degli ultimi anni è sicuramente una causa importante di questo disastro, ma l’essere stati sorpassati da Spagna e Portogallo obbliga a cercare altre ragioni.
Intanto molte, belissime, industrie italiane a partire, per esempio, da quella dell’attuale presidente di Confindustria, hanno scelto di non quotarsi; Ferrero e Esselunga, per fare altri due nomi, non sono quotate. Altre che sicuramente avrebbero contribuito a una performance migliore come Prada hanno scelto di farlo a Honk Kong evidenziando la marginalizzazione della borsa di Milano a cui ha contribuito anche l’acquisizione da parte del London stock exchange con le banche italiane venditrici e il “sistema Italia” ormai privo di qualsiasi potere di indirizzo sulla gestione del mercato azionario. Anche la struttura del capitalismo italiano con tante piccole e medie imprese non aiuta a “esaltare” il ruolo della borsa, oggi dominata da utility e banche che hanno in comune una grandissima esposizione al mercato interno.
Non si può non notare che in molti casi la quotazione sia stata un’occasione persa; molte imprese sono state quotate ai massimi (emblematico il caso di Saras), altre si sono decise ai salti dimensionali nel momento meno opportuno (Rcs), altre ancora sono state vittima di operazioni a leva che ne hanno distrutto o ridimensionato fortemente le potenzialità (Seat Pagine Gialle e Telecom Italia). Mentre gli spagnoli costruivano Santander o Telefonica qui si vendevano partecipazioni nelle banche in Sudamerica o si ripagavano i debiti della Opa a leva oppure si lasciavano società cariche di cassa e in settori chiave a languire in borsa, come Parmalat. Sempre gli spagnoli hanno comprato aziende tedesche (Hotchief) o aereoporti a Londra (lo scalo di Heathrow è posseduto dalla spagnola Ferrovial). In generale l’impressione è che la performance della borsa italiana sia anche da mettere in relazione a una certa stasi e mancanza di “imprenditorialità” del capitalismo italiano o, se si vuole, della parte con dimensione maggiore che è approdata in borsa.
È forse un caso che negli stessi giorni in cui si misura la performance della borsa italiana degli ultimi dieci anni la stessa sia ai massimi degli ultimi 27 mesi; era da luglio del 2011 che la borsa non era a questi livelli dopo un rally che continua ininiterrotto da più di tre mesi, nonostante i dati economici siano ancora negativi e nonostante non si veda ancora niente della ripresa che tutti aspettano con fiducia.
Cercare risposte a questa performance finanziaria nell’economia reale è tempo perso. Quello che sta accadendo è il risultato delle politiche di immissione di liquidità delle banche centrali, in particolare della Fed, che non sembrano dover finire nel breve periodo e di un’enorme scommessa che il mercato ha preso e sta prendendo sulla ripresa europea; il mitico “tapering” (la riduzione delle politiche espansive) che avrebbe dovuto fare la Fed viene posticipato perché l’economia americana rimane fragile e il mercato del lavoro pure nonostante l’euforia di Wall Street. Ieri gli ultimi dati sul mercato del lavoro americano hanno confermato questa debolezza e la borsa ha festeggiato perchè tutto ciò allontana la stretta della Fed (gli indici americani sono, per esempio, ai massimi di sempre).
La scommessa sui mercati dell’Europa avviene in un contesto di liquidità abbondante e partendo dal pressupposto che molto probabilmente si è toccato il fondo e che i numeri delle società con un po’ di ripresa e in presenza di un circolo virtuoso potrebbero cambiare di molto in meglio. L’economia in alcuni paesi è scesa talmente tanto per così lungo tempo che, in teoria, gli spazi di recupero sono molto elevati. Essere ai massimi degli ultimi due anni, in questo scenario, non spaventa troppo perchè si è sempre molto al di sotto dei livelli pre-crisi. In questa ottica più il calo è stato pronunciato, più lunga è stata la crisi e meno riforme si sono fatte più un mercato diventa interessante perchè, in teoria, gli spazi di recupero sono maggiori.
Il fatto che questo atteggiamento benevolo che guarda solo alle opportunità e non ai rischi sia anomalo e in un certo senso perfino preoccupante poco importa: è chiaro che in questo contesto il mercato italiano appaia particolarmente interessante, perché l’economia italiana langue e perchè, ripetiamo, sempre in teoria, gli spazi di miglioramento sono enormi (i sindacati italiani scioperano senza che sia stato lasciato a casa un solo dipendente pubblico, inclusi quelli delle amministrazioni fallite, dopo che l’industria privata ha perso centinaia di migliaia di addetti).
Lo scollamento tra realtà e aspettative è diventato molto importante e più grande di quanto pure sarebbe normalmente lecito per mercati abituati ad anticipare i cambiamenti economici; il rialzo del mercato è nonostante tutto un’enorme scommessa sulla capacità dell’Italia di uscire dalla crisi e rilanciarsi. Per colmare la distanza tra realtà e aspettative, però, si deve lavorare ancora tantissimo. Il gradino più alto del podio della speciale classifica di Mediobanca, dopotutto, non è così distante.
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