Alesina e Giavazzi in un editoriale pubblicato ieri da Il Corriere della Sera dal titolo “forza vendete (e giù le tasse)” sono tornati a chiedere a gran voce una nuova ondata di privatizzazioni per abbattere il debito pubblico in modo da consentire un abbassamento delle tasse. I numeri a supporto di questa tesi, che sostiene non solo la necessità di vendere ma anche quella di farlo in fretta, sembrerebbero inoppugnabili; gli esempi di Alitalia e Finmeccanica vengono citati a proposito del fallimento del modello delle imprese pubbliche che “finiscono per generare corruzione e costare miliardi ai contribuenti”, mentre gli esempi della Nuovo Pignone e di Autogrill diventata leader mondiale nella ristorazione aeroportuale testimonierebbero in modo inequivocabile i benefici del passaggio ai privati.



Partiamo dall’ultimo punto; sembra davvero impossibile parlare di Autogrill dimenticandosi di specificare che è posseduta dagli stessi azionisti di Atlantia, autostrade per l’Italia, e dagli stessi di Gemina, aereoporti di Roma. Atlantia, un monopolio pubblico ceduto ai privati, a fine settembre 2012 doveva ancora completare 4,3 miliardi di euro di investimenti del piano 1997, 5,2 miliardi di euro del piano 2002 e 5,0 miliardi di euro del 2007. Certo, lo sappiamo, ci sono le lentezze burocratiche, la lunghezza delle autorizzazioni di cui non si può incolpare nessuno, però non sembra un successone considerato, oltre tutto, che c’è il 10% pre-tasse di rendimento sugli investimenti fatti.



Senza la politica industriale in alcuni settori chiave non avremmo certamente l’Eni – la Germania sicuramente ce la invidia molto – che si sente “obbligata” a investire invece di massimizzare come spesso accade il profitto trimestrale. La Nuovo Pignone, come sicuramente i due autori sapranno, deriva dalla privatizzazioni di controllate dell’Eni all’inizio degli anni ‘90 e tutto fa ritenere che senza l’Eni statale non ci sarebbe stata neanche la Nuovo Pignone né prima, né dopo la privatizzazione. La General Electric ha comprato da Eni (a che prezzo col senno di poi a proposito?) un’eccellenza italiana che senza Eni stessa non esisterebbe, così come non esisterebbe Saipem. Stendiamo un velo pietoso sulla storia di Telecom Italia e su molte altre privatizzazioni su cui il contribuente italiano ha perso soldi a decine e decine di miliardi di euro rispetto a cui le ricapitalizzazioni di Alitalia sembrano noccioline.



Ma andiamo al cuore della questione e cioè l’impatto sullo “stock” di debito e sui minori oneri finanziari. I due economisti calcolano che vendendo Eni, Enel, Terna, Finmeccanica, Poste Italiane, Sace, Stm e Cassa depositi e prestiti si incasserebbero circa 60 miliardi di euro. Abbiamo società chiave per l’indipendenza energetica dell’Italia che, come noto, non ha risorse, monopoli della rete già quotati ed effiecienti, imprese attive nel settore strategico e sensibile della difesa, quello su cui, per non fare nomi, gli americani decidono di escludere dalla gestione e dal controllo gli stranieri e di stendere una coltre di “riservatezza” sulle attività (chiedere a Finmeccanica di Drs). Tutto questo per ridurre di meno del 3%, ripetiamo 3%, lo stock di debito.

Gli stessi Alesina e Giavazzi sono obbligati a buttare nel calderone 300 miliardi di cessioni immobiliari che sono impossibili nel breve-medio termine anche per il più ottimista degli investitori che guardano l’Italia. Sparare il numero di 300 miliardi di cessioni immobiliari mettendo, era inevitabile, le mani avanti perchè sono “difficili da valutare e da vendere” e poi, in qualche modo, metterli nel conto ha dell’incredibile (chi sarebbero, tra l’altro, i compratori?). I 60 miliardi di euro farebbero risparmiare circa 2,5-3 miliardi di euro di interessi all’anno, una cifra assolutamente comparabile con i dividendi che lo Stato incassa su quelle partecipazioni! Le sole partecipazioni in Eni e Enel dopo 5 anni di recessione garantiscono ancora circa 1,5 miliardi di euro di dividendi all’anno; dividendi che dopo la cessione non verrebbero più incassati. Tutto questo senza contare la docilità con cui sono state accolte le varie robin hood tax che un azionista internazionale avrebbe digerito molto più difficilmente.

Il problema dell’economia italiana è la mancanza di crescita e un debito in esplosione perchè l’amministrazione pubblica è elefantiaca e non è stata quasi toccata dalla crisi. La disoccupazione record è frutto di una media in cui non è stato lasciato a casa un solo e singolo dipendente pubblico, nemmeno dell’amministrazione più inefficiente, mentre nel privato la gente perde il posto e non arriva alla fine del mese. Oggi grazie a Fed, banca del Giappone e Bce rifinanziare il debito non è un problema anche se l’economia è a pezzi e anche se non c’è crescita. Il giorno, speriamo il più tardi possibile, che questo fiume di liquidità verrà prosciugato e il mercato cambierà umore quello che conterà non sarà un più o meno 3% del debito ma il numeratore del Pil. Cedere asset che producono dividendi non cambia gli “economics” e mette in serio pericolo la competitività e la “sovranità” del Paese.

Il caso Telecom, dove tra gli interessi dell’azionista finanziario e quelli del Paese, per la trasformazione del settore, sono divergenti è emeblematico. “Vendere” l’idea che basti o sia fondamentale un “accelerated bookbuilding” sui mercati azionari a favore di chi coglie perfettamente il valore economico e strategico di quello che si compra è fuorviante. Speravamo davvero in un altro editoriale, quello sulla crescita e sul taglio della spesa pubblica inefficiente; quello di ieri serve solo ai compratori, non di certo all’economia italiana.