Ieri l’indice azionario americano “Dow Jones industrial Average” ha raggiunto i massimi di sempre battendo il precedente massimo registrato l’11 ottobre del 2007 (14198,10 per l’esattezza). Nel frattempo è fallita Lehman Brothers, si è reso necessario il salvataggio di Freddie Mac e Fannie Mae, con l’indice che è arrivato a perdere dai massimi del 2007 più del 50% (ben sotto i 7000 punti a marzo del 2009). Il confronto tra i principali indicatori di “salute” economica americani di allora e di oggi è impietoso; dal numero di disoccupati, a quello di chi riceve un sussidio per gli alimenti (i food stamps), passando per il deficit e il debito pubblico, il confronto mostra in modo inequivocabile una situazione sensibilmente peggiore per “l’economia reale”.
Dietro a questo risultato c’è la politica super accomodante della Federal Reserve che ha inondato di liquidità i mercati sia per evitare il collasso del sistema finanziario che nell’autunno del 2008 versava in condizioni tragiche, sia per sostenere una fragilissima e debolissima ripresa che non si è ancora tradotta in un miglioramente accettabile del mercato del lavoro.
Non servono particolari competenze per rendersi conto che il risultato eccezionale di ieri è un’anomalia, un sintomo non rassicurante dello stato di salute dei mercati finanziari. L’impressione che si sia davanti a una “malattia”, a una bolla, è rafforzata anche solo da uno sguardo superficiale al mercato obbligazionario con i rendimenti delle obbligazioni statali americane ai minimi, o quasi, di sempre, e quelli delle società schiantati al punto tale da renderne l’acquisto davvero poco appetibile.
Non si tratta di niente di nuovo e gli investitori, soprattutto sul lato obbligazioni, sono perfettamente consci di quello che sta accadendo da molto tempo. Ne è conscia anche la Federal Reserve, che nei verbali pubblicati settimana scorsa ha parlato chiaramente di “preoccupazione per i potenziali incentivi a un eccessivo rischio con conseguenze negative per la stabilità finanziaria”. L’eccessivo rischio è anche quello che porta a comprare società quotate a prezzi che non sempre hanno un buon profilo rischio/rendimento.
È davvero impossibile non fare un paragone con quello che sta accadendo in Europa; i rischi che la Fed ha evidentemente ben in mente sono comunque preferibili alla strategia intrapresa dall’Eurozona che ha portato alla sfascio totale delle economie più deboli, Grecia in primis, e che sta lentamente portando economie considerate stabili o comunque poco vulnerabili in sofferenza. È il caso dell’Italia con un 2012 disastroso, ma con un governo tecnico perfettamente ortodosso con la strategia tedesca di austerity e rigore, e oggi della Francia che comincia a consegnare ormai da mesi segnali evidenti di crisi.
Se l’alternativa ai rischi della Fed sono le certezze europee di paesi in crisi tragiche, allora il problema, in un certo senso, non si pone. Se le pecche della strategia tedesca, con gli effetti indesiderati dei nazisti in Parlamento in Grecia, stanno diventando sempre più chiare anche in Europa, dall’altra parte dell’Oceano il fallimento dell’“esperimento” europeo deve apparire ancora più evidente, con la Grecia che diventa, suo malgrado, il termine di paragone più eloquente.
Che quanto fatto negli Stati Uniti sia comunque meglio di quanto visto nel vecchio continente non significa che i problemi di un deficit pubblico insostenibile, di una crescita comunque molto debole e di bolle finanziarie e sacche di disequilibri (vedi la bolla dei prestiti agli studenti) sparsi siano stati risolti. Quando la Fed, prima o poi, alzerà i tassi a livelli normali, gli Stati Uniti si troverebbero a pagare quasi mille miliardi di dollari all’anno di interessi in più di oggi; negli ultimi mesi il dibattito è poi concentrato sul “fiscal cliff” e le strade per riportare il deficit dello Stato americano su livelli sostenibili nel medio-lungo periodo.
Se all’Italia venisse consentito di rimandare il rispetto dei parametri di deficit, oltre che bassi tassi di interesse per qualche anno, i problemi di una burocrazia inefficiente e elefentiaca, di una legislazione del lavoro “perfettibile” o di un sistema educativo/universitario non adeguato non si risolverebbero a colpi di liquidità. Il punto decisivo è che affrontare i problemi con il Pil al -2% o al +2% non è affatto la stessa cosa, così come con il sistema bancario bloccato o funzionante.
Il tempo perso dall’Europa lascerà cicatrici e segni ancora per molti anni sui paesi colpiti e anche il tempo e la crescite perse non si recupereranno facilmente. Non è ancora chiaro se l’Europa proseguirà con il suo esperimento oppure se, magari in una versione riveduta e corretta, deciderà di cambiare linea d’azione. L’unica cosa certa è che il tempo perso, soprattutto quando i concorrenti non si fermano, si paga e che nel caso italiano altri dodici mesi senza riforme strutturali sono un lusso davvero esagerato, molto ma molto di più che gli stipendi dei parlamentari, per i tempi che corrono.