Come ha dichiarato questa settimana il presidente di Fiat, John Elkann, a proposito della quotazione a New York, “organizzazioni grandi come la nostra non hanno una sede ma ne hanno tante”. D’altronde il profilo internazionale del gruppo dopo l’acquisizione di Chrysler ha fatto un salto quantico e la data del raggiungimento del controllo totalitario del terzo produttore di auto americano sembra sempre più vicina; manca solo il “dettaglio” del prezzo a cui il Veba cederà le proprie quote, ma il più è fatto. A quel punto il gruppo internazionale di cui l’Europa – e ancora più l’Italia -rappresenta solo una parte delle vendite non potrà rimanere confinato negli spazi ristretti della borsa italiana tanto più se il “sistema Paese” ha perso per strada più di un colpo dall’inizio della crisi, sia in termine di Pil che di immagine.
Fiat, come noto, è ormai un gruppo internazionale, una multinazionale che non può permettersi inutili inefficienze e non può far dipendere le decisioni di investimento, di allocazione di risorse, oltre che gli sforzi in ricerca e produzione, da logiche che non mettano al primo posto la competitività dell’azienda e il ritorno degli azionisti. Sarà per questo che continua a essere il secondo socio della società editrice de Il Corriere della Sera, nonostante i risultati economici disastrosi, la situazione finanziaria drammatica e le prospettive industriali imperscrutabili (per essere buoni) e che parteciperà all’aumento di capitale di una società, sempre Rcs, italianissima che gestisce un’attività le cui sinergie col settore auto, almeno per la limitata comprensione di chi scrive, risultano alquanto deboli e opinabili.
Le critiche dell’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne, al “sistema Italia” sono state in alcuni casi graffianti e per certi versi giustificate; la performance economica deludente non è solo il frutto dell’austerity imposta dalla Germania all’Italia, che pure ha dovuto pagare ben oltre i suoi demeriti, e il sistema Italia ha innegabilmente punti che richiedono una riforma, dalla legislazione sul lavoro alla tassazione passando per burocrazia e infrastrutture. Ma il pulpito da cui parla l’ad di Fiat sembra un bel po’ più basso in questi giorni quando una società che produce e vende auto partecipa all’aumento di capitale di una società in perdita che produce e vende giornali e notizie.
Se l’investimento in giornali è una parte della strategia ci si aspetterebbe che venisse replicata in tutti i mercati in cui opera il gruppo altrimenti, come decisamente più probabile, si è in presenza di un’anomalia “italiana”. I dubbi, sicuramente ingiustificati, che potrebbero sorgere in presenza di un investimento così anomalo è che tutti i costi, ma non tutti i benefici, dell’investimento siano condivisi dall’investitore di minoranza; il singolo azionista Fiat difficilmente può esercitare un qualsiasi tipo di influenza sul Corriere in proporzione alla propria quota azionaria.
I Pesenti, Della Valle e Benetton hanno messo le quote di Rcs nelle loro holding (quotate o meno) non nelle operative: chi compra Italcementi compra cementerie e chi compra Tod’s compra una società del lusso. Chi compra Fiat ha invece in omaggio il Corriere e il privilegio di poter risanare i conti di una società che ha chiuso gli ultimi due esercizi con una perdita cumulata superiore agli 800 milioni di euro (e le prospettive del settore media sono di difficile lettura a tutte le latitudini).
È tutto ovviamente legittimo e nessuno può dire con assoluta certezza se l’investimento di oggi darà o meno frutti e in che misura. È certo però che la strategia di separare le società secondo l’attività seguita dallo stesso gruppo Fiat nella separazione societaria di Fiat auto e Fiat industrial che viene, tra l’altro, predicata dalla grandissima maggioranza dei libri di testo di finanza e consigliata dalla grandissima maggioranza degli investitori in questo caso, a torto o a ragione, non viene rispettata.
Le domande e le perplessità sembrano inevitabili.